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Scusandoci per il ritardo nella pubblicazione rispetto alla data prevista
Terminati i riti
preparatori, la venerazione dell’altare, e innalzati gli inni a Nostro Signore,
inizia la vera e propria parte istruttiva, nella quale il sacerdote, in primis
dottore e poi santificatore, come fu già Nostro Signore Gesù Cristo stesso di
cui egli è perfetta figurazione (“alter Christus”). Essa, facente parte del
proprio del giorno, ha tuttavia uno schema pressoché fisso con una ben precisa
origine storica che ci proponiamo di sintetizzare qui.
XVIII. L’epistola
Nelle Messe basse e cantate semplici, il sacerdote, dopo
aver pregato, si reca al lato dell’epistola per leggere la medesima, la cui
esposizione rappresenta, secondo la già più volte citata interpretazione
mistica della S. Messa come sacra rappresentazione della Passione, Cristo che
risponde a Pilato. Ha inizio dunque la parte didattica vera e propria, che ha
comportato per lunghi secoli la fonte principale, assieme alla predicazione che
ne era la naturale successione, di istruzione religiosa dei fedeli, completata
poi a partire dal Tridentino con il Catechismo parrocchiale. Anticamente,
questa parte, proprio perché occorse per istruire i fedeli mediante salutari
letture della Sacra Scrittura, poteva essere assistita anche dai catecumeni, i
quali traevano gran giovamento, in preparazione del Battesimo, da
quest’insegnamenti.
La prima delle letture bibliche proposte è per l’appunto
detta “epistola”, giacché è tratta perlopiù dagli scritti apostolici, e
specialmente da S. Paolo: pertanto è detta soventemente lectio ex apostolo o, secondo l’uso diffuso presso i Greci, apostolus. Il costume di leggere brani
della Sacra Scrittura durante le sacre sinassi, al di là dell’utilità pratica e
spirituale succitata, trae origine dalla lettura dei libri di Mosè e dei
Profeti, che si usavano leggere durante le officiature sabbatiche dei Giudei.
Ogni Messa domenicale ha una propria epistola, secondo un
ben preciso calendario. Le Messe feriali, essendo di più tardiva introduzione,
ne sono sprovviste, e utilizzano i formulari della domenica (anche se, tra
Messe votive e feste dei Santi, è davvero raro nei calendari tridentino e
successivi che si dica la Messa della domenica in una feria della Settimana,
secondo un uso introdotto già da Alcuino con la sua raccolta di formulari
votivi); le ferie della Quaresima, tuttavia, in virtù del riordino generale
subito a Roma tra VII e IX secolo, hanno tutte una lettura e un Vangelo propri.
Nei primi secoli ciascun vescovo ordinava il ciclo delle epistole secondo la
propria preferenza pastorale, ma attorno al IV secolo furono definitivamente
fissate da S. Girolamo, in un ciclo unico annuale che aveva lo scopo di
favorire la memorizzazione dei brani. In realtà, fino ai tempi di Pio V vi
saranno numerose modifiche, e l’ordine sarà più volte turbato: lo Schuster
suggerisce di guardare come i cicli di letture quaresimali vengano bruscamente
interrotti nel giovedì delle ultime due settimane (ed effettivamente si ha
traccia di una modifica di Gregorio II ai testi letti in queste Messe), nonché
cita alcune letture introdotte secondo allusioni storiche, come la lettera da
S. Pietro alla festa di S. Apollinare, col monito rivolto ai vescovi non dominantes in cleris, indirizzato
ora ai metropoliti ravennati, i quali, “ebbri del favore che godevano presso la
corte degli esarchi, sottraevansi all’autorità pontificia e vessavano i propri
suffraganei”).
Se per i protestanti la lettura scritturale è una parte
autonoma e di massima importanza della liturgia, nella tradizione cattolica
viceversa non è mai effettuata per sé
stessa, ma ha sempre un significato che va al di là della pur importante
istruzione dei fedeli, come la preparazione degli animi all’Eucaristia. La
sacra funzione della lettura è evidente quando, durante la Messa Solenne,
l’epistola è letta in plano dal Suddiacono, rivolto verso all’altare, e non
verso il popolo come presso i protestanti (identicamente farebbe un lettore
ordinato alla Messa Cantata).
Dunque abbiamo visto come il sacerdote, dopo aver espresso i
voti e i desideri dei fedeli, insegna loro in nome della Chiesa, e si appresta
a far loro udire le parole del Signore stesso contenute nel Vangelo; ma per
questo è necessario che i cuori dei fedeli siano stati prima ben preparati
dalle parole della Legge, dei Profeti e degli Apostoli.
Nei primi secoli, si leggevano anche numerose pericopi
dall’Antico Testamento: tracce ne son rimaste nelle Messe delle Tempora, nelle
feste più antiche e nelle feste dei Santi. La soppressione della lettura
veterotestamentaria che precedeva l’epistola è, secondo Giovanni Diacono, da
attribuirsi a S. Gregorio Magno (anche se la forma in due lezioni si trova
nelle feste maggiori dei Sacramentari dei secoli VIII-X, e per diversi secoli a
venire si usò leggere due epistole nelle domeniche d’Avvento).
S. Agostino diceva
che la Sacra Scrittura è una lettera di Dio Onnipotente ai suoi fedeli. Proprio
per questo è doveroso rendere grazie a Iddio per il dono dell’istruzione,
mediante la consueta formula Deo gratias,
nata assai probabilmente per scopi pratici all’età delle persecuzioni: chiunque
infatti non la pronunciasse era subito individuato come infedele e prontamente
allontanato dall’ostiario.
XIX. Graduale
Tra una lettura e l’altra è invalso da sempre l’uso di
recitare dei Salmi, indicati nei Sacramentari più antichi anche col nome di psallenda (uso mozarabico) e psalmellus (ambrosiano): in particolar
modo la forma più antica era quella del cosiddetto “salmo responsoriale”, che
nel rito romano è passato con il nome di graduale, dacché il cantore lo
eseguiva inginocchiato sui gradini dell’ambone (o, secondo altri, perché veniva
cantato mentre il diacono era inginocchiato sui gradini dell’ambone settentrionale
per chiedere la benedizione prima del Vangelo). Anticamente, si è detto,
all’intonazione di un solista rispondeva il coro: dalle indicazioni del Messale
si può ancora percepire l’antica suddivisione, dacché accanto ai versetti che
un tempo spettavano al solista si trova la consueta indicazione V/. E’ da dire
che nemmeno in tempi antichi si cantava un salmo intero: l’uso di suddividere i
salmi in brevi pericopi si ritrova già negli uffici monastici egiziani; la
forma attuale della salmodia della Messa, principalmente dai Salmi ma anche da
libri sapienziali o storici, fu fissata tra il 450 e il 550, con l’istituzione
della Schola Cantorum romana da parte
di Celestino I (a quest’epoca, col prevalere del coro specializzato, si fa
risalire anche la scomparsa dell’uso responsoriale).
Lo Schuster rimanda l’origine di questo canto agl’inni
corali delle sinagoghe, nonché al teatro greco; secondo un’interpretazione
spirituale, siccome il graduale generalmente risponde nematicamente alla
lettura dell’epistola, secondo l’antico motto “a letture tristi si risponda con
cose tristi, a letture liete con cose liete”, può paragonarsi agli affetti
devoti che la lettura suscita nel cuore.
Il Guyet ricorda che entrambe le parti del graduale,
similmente all’introito, contengono “ora invito ed esortazione alla lode, ora
congratulazione, talvolta prosopopea o invettiva”. Altra caratteristica
stilistica è l’assenza di dossologia (cosa anomala per i Latini, impensabile
per i Greci). Dal punto di vista musicale, il graduale aveva spesso la melodia gregoriana più ornata
di tutta la Messa, che rompeva la rigida monodia della lezione. La sua
difficoltà fece sì che sovente fosse affidato al più esperto della schola, anche se in alcuni luoghi erano
i fanciulli a intonarlo; a Milano, poi, il sabato santo, era l’arcivescovo in
persona (uso condannato da Gregorio Diacono).
In tempo pasquale, giusta la Regula Sancta del IV secolo, il responsorio del popolo era sempre alleluia: quest’uso si è perfettamente
conservato, e infatti nella cinquantina di Pasqua il graduale è sostituito dal
cosiddetto “grande alleluia”, infarcito da queste ebraicizzanti invocazioni di
gioia.
XX. L’Alleluia, il
Tratto e la Sequenza
Il Santo Evangelo, la parola stessa di Nostro Signore, merita
d’essere degnamente onorata da un canto di lode, il cosiddetto “carme
alleluiatico”, intercalato dalla tipica invocazione ebraica (variamente
tradotta con Gloria tibi Domine o Laudate Deum, tra cui, sulla base degli
usi Orientali, dissociandomi dallo Schuster, preferisco la prima), la quale
“risuonava continuamente nella bocca do Gesù e degli apostoli, intervallata da
salmi di lode”. L’introduzione di quest’uso giudaico nella liturgia cristiana è
prima orientale, importato a Roma solo da Papa Damaso. L’antico uso dell’Urbe,
secondo Sozomeno, era di cantare tale inno solo a Pasqua; per influsso greco,
giunsero gli alleluia quaresimali e per i defunti (contestati da S. Girolamo,
dacché a Roma tale invocazione aveva assunto un ruolo prettamente gioioso, al
di là del suo letteral significato, che rendeva contraddittorio per i Latini
l’uso orientalizzante adottato anche dai Benedettini di intonar l’Alleluia
negli uffici vigiliari, e ometterlo invece nella cinquantina pasquale).
Sappiamo peraltro che questo canto non ebbe diffusione universale, ma fu
ignorato dagli anacoreti egiziani e da altre chiese orientali; inoltre, in
Spagna e in altre tradizioni anche occidentali il suo posto non è prima del
Vangelo. Sull’origine del versetto intercalare vi sono molte supposizioni,
tutte però, al di fuori di quella mitizzante che lo rimanda all’uso giudaico,
poco convincenti.
Già a partire dalla metà del IV secolo, si è detto, iniziò a
contestarsi l’uso di cantare in Quaresima tali gioiosi melismi, cosa che fu
sanzionata da S. Gregorio, il quale ordinò anche di cantarli però in tutte le
altre domeniche e feste. Con l’introduzione della Settuagesima, anche dalle tre
settimane preparatorie fu escluso il canto alleluiatico, cosa che diede origine
a suggestivi uffici di commiato dal gioioso carme, officiati in alcuni usi
gallicani il martedì grasso.
Se nell’ufficio divino l’Alleluia è sostituito dalla
pressoché omologa (ma meno inflazionata dal sapore pasquale) invocazione Laus tibi Domine [Rex aeternae gloriae],
durante la Messa al suo posto si canta invece, nell’uso romano, il Tractus, la più antica forma di salmodia
diretta, “tutta d’un tratto” (quanto lungamente si sono interrogati i
liturgisti medievali sul significato di tal termine, ignorando l’esistenza di
un psalmus indirectus nell’antico
costume delle due lezioni scritturali!). Trattasi di un salmo intero o quasi
intero, cantato assai sobriamente sopra il II o l’VIII tono, ma al contempo
decisamente prolisso e prettamente penitenziale (si pensi al salmo XC, della I
Domenica di Quaresima).
Accenniamo qui brevemente alla Sequenza, aggiunta al canto
della Messa verso i secolo IX, come un testo che, adattandosi alle note su cui
si doveva cantare l’Alleluia, serviva da promemoria per i cantori, e che venne
poi sanzionato all’interno dei Sacramentari (ma i loro testi, come si può ben
notare, non hanno nulla in comune coi modelli innografici tradizionali, e
ricordano invece molto la prosa, rimata ma aritmica, dell’epoca). Il Bona la
definisce una “sequela e appendice del cantico alleluiatico”. Molte sequenze,
amate dal popolo, furono introdotte negli uffici solenni, e durante di esse si
sonavan l’organo e le campane, per dar maggior risalto allo jubilus (al nome di sequentia infatti, derivato dal fatto che accanto al melisma dell’alleluia
soleva indicarsi “et sequentia”, fu lungamente affiancato quello di jubilatio): pressoché ogni domenica
arrivò ad averne una. Considerata l’enorme proliferazione di tali testi
(arrivarono ad essere più di 5000), spesso di autori anonimi, e la loro non
originarietà nel rito romano (furono infatti ricondotti agli ambienti monastici
di S. Gallo), S. Pio V li soppresse tutti, tranne cinque, di provata
ortodossia, meravigliosa armonia compositiva, sublime stile e pregnante
significato:
- Victimae paschali laudes, attribuita a Wipone, per la festa e l’ottava di Pasqua
- Veni Sancte Spiritus, d’Innocenzo III, per la festa e l’ottava di Pentecoste
- Stabat Mater, di Jacopone da Todi, per le due feste dei sette dolori della B.V. Maria
- Dies Irae, di Tommaso da Celano, per le Messe da morto
- Lauda Sion Salatorem, di S. Tommaso d'Aquino, per la festa del Corpus Domini
Lo jubè (tecnicamente "pontile-tramezzo") della Cattedrale francese di Albi (in alto).
L'iconostasi della Basilica veneziana di S. Maria Gloriosa dei Frari (in basso)
Con funzione di oscuramento del Santuario simile a quella iconostasi orientali, come si può notare,
su di essa sono presenti due amboni, quello di destra per l'Epistola e quello di sinistra per il Vangelo.
Lo stesso nome di jubè è una corruzione dello Jube che il Diacono, inginocchiato sui gradini dell'ambone
sinistro, pronunciava per richiedere la benedizione
XXI. Il Vangelo
Vangelo a Messa cantata semplice; sotto, tre momenti del canto del Vangelo durante una Messa solenne |
Viene a questo punto cantata la più importante delle
letture, la parola stessa di Nostro Signore Gesù Cristo, solennemente cantata
dal Diacono, al lato sinistro del Santuario (o talvolta fuori dal Santuario),
con i lumi e l’incenso. L’uso di cantare il Vangelo al corno sinistro (che
mantiene anche il Sacerdote nelle Messe lette e cantate, dopo il trasporto del
Messale da parte del ministro, in cui si figura Cristo portato da Erode a
Pilato) non è originale: anticamente, esso veniva letto in modo da avere il
prete a sinistra e i fedeli a destra, rivolgendosi così a entrambi; tuttavia,
il Diacono si rivolgeva così, assai sconvenientemente alle donne. S’introdusse
allora la nuova posizione, ricca di significati simbolici: essendo il Nord il
lato delle tenebre, il Vangelo è la luce che illumina qui in tenebris et in umbra mortis sedent; alcuni aggiunsero che la
parola del Vangelo era anche la forza di Dio che vinceva gl’invasori che
venivano dal Nord (i Longobardi, nel caso di Roma); in questa posizione,
inoltre, si è alla destra del Crocifisso, e dunque al suo lato più degno.
Dopo che il sacerdote ha benedetto l’incenso, il Diacono, inginocchiato sui gradini dell’altare (dell’ambone, un tempo), supplica il Signore di purificarlo (alludendo alla purificazione ricevuta da Isaia profeta e narrata al capitolo VI della sua profezia) e chiede al celebrante la benedizione, per poter degnamente ripetere le parole di Gesù (nelle Messe senza Diacono, il sacerdote dice il Munda cor meum e chiede direttamente a Iddio la benedizione).
Ivi, pronunciata la salutazione Dominus vobiscum, che suggestivamente il Gueranger amplia “Il Signore sia con voi perché udiate il Verbo di Dio, che v’illumini e vi alimenti colla sua Parola”, inizia la pericope evangelica è introdotta dalle parole Sequentia Sancti Evangelii secundum N. (sequentia sta per “parole che si trovano in seguito”: se fossero le
prime parole del Vangelo, egli direbbe Initium),
e accompagnata da un segno di croce sul libro, a significare “questo è il
Vangelo del Crocifisso”, e tre segni di croce su fronte, labbra e petto, per
testimoniare apertamente la Croce di Cristo, raccontarla colla bocca, credervi
coll’intelletto e abbracciarla con tutto il cuore. Il diacono legge il Vangelo
a mani giunte, non permettendosi la familiarità di tenere le palme sul libro,
come farebbe il sacerdote. Al termine della lettura, risposto Laus tibi Christe sul modello del Δόξα σοι orientale, il Vangelo è portato
al celebrante perché ne baci l’inizio in segno di venerazione, pronunciando la
formula di benedizione Per evangelica
dicta deleantur nostra delicta (una delle benedizioni del Mattutino, di
origine medievale, come tradisce la rima), e poi quest’ultimo è incensato: l’incenso,
santificato ulteriormente dal contatto con le parole di Gesù, santifica il
sacerdote e ne conferma la missione di dottore divino nel mondo.
Sacerdos in medio altaris exspectat donec
subdiaconus missale in latere Evangelii collocaverit et diaconus librum
Evangeliorum in medio altaris deposuerit; deinde incensum imponit et
benedicit more solito. Postea diaconus, genuflexus in supremo gradu inclinatus
dicit:
D - Munda cor meum, ac lábia mea,
omnípotens Deus, qui lábia Isaiae prophétae cálculo mundásti igníto; ita me
tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne
váleam nuntiáre. Per Christum Dóminum nostrum. Amen.
Diaconus, accipiens librum Evangeliorum de
altari, petit benedictionem a sacerdos similiter genuflexus in superiori gradu
altaris
D - Jube, Dómne, benedícere.
Sacerdos dicit:
S - Dóminus sit in corde tuo et in
lábiis tuis: ut dígne et competénter annúnties Evangélium suum: in nómine
Patris, et Fílii, + et Spíritus Sancti. Amen.
|
Il Sacerdote aspetta in mezzo all’altare
sinché il suddiacono non abbia collocato il Messale al lato del Vangelo, e il
diacono abbia deposto il libro dei Vangeli in mezzo all’altare; indi, impone
l’incenso e lo benedice al modo consueto. Poi, il diacono, genuflesso sul
primo gradino, prostrato dice:
D – Purifica il mio cuore e le mie
labbra, o Dio onnipotente, che purificasti le labbra d’Isaia profeta col carbone
ardente; così degnati di purificarmi con la tua benigna pietà, affinché io
possa degnamente proclamare il tuo Santo Evangelo. Per Cristo Signore nostro.
Amen.
Il Diacono, prendendo il libro dei Vangeli
dall’altare, chiede la benedizione al sacerdote, genuflesso sempre sul primo
gradino dell’altare
D – Comanda, o signore, la benedizione.
Il sacerdote dice:
S – Il Signore sia nel tuo cuore e
nelle tue labbra, acciocché tu proclami chiaramente e degnamente il suo
Vangelo: nel nome del Padre e del Figlio + e dello Spirito Santo. Amen.
|
Predica dal pulpito |
Predica dalla balaustra |
Al termine delle letture, obbligatoriamente nelle domeniche
e nelle feste di Precetto (Concilio Tridentino), il celebrante o un predicatore
può tenere un sermone (detto anche omelia, dal greco), il quale può vertere
sulla Scrittura appena proclamata, sulle vite dei Santi, su alcuni esempi di
virtù, sul Catechismo, su articoli di fede o morale; questa pratica,
antichissima come ci attestano le raccolte di omiletica dei Padri della Chiesa,
ha origine dalla predicazione apostolica, ed è assai importante, specialmente
nelle Parrocchie, per garantire ai fedeli un’adeguata istruzione in materia
religiosa. L'omelia si tiene tradizionalmente dal pulpito, posto sopra la Navata, oppure alla balaustra dal lato del Vangelo; il sacerdote che predica indossa la berretta e, se era celebrante o
ministro superiore, depone sul Messale il Manipolo, il quale non dev’essere
tenuto per nulla al di fuori della Messa.
Secondo le parole di S. Agostino, "dopo il Sermone si fa la dimissione dei catecumeni, degli energumeni, degl'indegni e degl'infedeli", pressoché scomparsa nel rito romano, ma di cui parleremo nella prossima uscita.
Fonti: si vedano le
pubblicazioni precedenti
Prossima pubblicazione (fine giugno): dalla dimissione dei catecumeni all’Offertorio
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