lunedì 21 agosto 2017

Appunti di filosofia - Il δαιμόνιον socratico

E' universalmente noto che, nell'universo logico e razionale del primo grande filosofo ateniese, suona quasi come una nota stonata la presenza di un "demonio", che Socrate stesso ammette indirettamente di avere dentro di sé. Questo aneddoto, che alcuni analisti razionalisti moderni cercano in ogni modo di dimenticare perché poco coerente col resto del pensiero socratico, merita un'approfondimento.


Occorre anzitutto partire dalle fonti più antiche. Queste sono le parole che Platone mette in bocca a Socrate nella di lui Apologia, da cui si deduce la presenza di questa creatura soprannaturale: ὅτι μοι θεῖόν τι καὶ δαιμόνιον γίγνεται (Apolog. 31d), "Poiché in me vi è qualcosa di divino e demonico". Questo elemento demonico non meglio precisato ha fatto interrogare generazioni e generazioni di filosofi, a partire dagli immediati successori di Socrate, circa l'origine, la funzione e la natura di questa presenza. Già i due biografi del filosofo si occuparono di dare un'interpretazione ad esso, che può essere ricavata solo dai loro scritti, avendo Socrate rinunciato a lasciarci testimonianze scritte. Oltre alla succitata frase dell'Apologia, da Platone ci perviene una qualche indicazione anche nella Repubblica, ove però il maestro taglia corto sull'argomento dicendo: "Per quanto riguarda poi il mio segno demonico, non vale la pena di parlarne: a pochi o nessuno è capitato prima di me" (Rep. 496c). Eppure, i suoi discepoli sono convinti che questo segno abbia avuta grande influenza nella vita di Socrate, e sia alla base di alcune scelte di Socrate apparentemente inspiegabili per la società ateniese del V secolo, come quella di non dedicarsi all'attività politica. Sulla sua azione effettiva, però, essi sono divisi:
  • Nella presentazione platonica, il δαιμόνιον ha quasi sempre un ruolo negativo (deterrente) rispetto alle decisioni e alle azioni di Socrate, specialmente quelle che avrebbero un maggior peso morale, trattenendolo dunque dal compiere turpitudini, e mantenendolo nella rettitudine.
    Forniamo di seguito una piccola bibliografia di riferimenti per questa tesi (il fatto che Socrate quivi parli apparentemente in prima persona non deve ingannare, essendo sempre necessario considerare la mediazione di Platone, che quasi sempre usa la voce del maestro per proporre il proprio pensiero):
    - Apolog. 31d "quando (la voce) si fa sentire, sempre mi distoglie da ciò che sto per fare, e giammai m'incita".
    - Euthyd. 272e "E proprio mentre mi stavo alzando, mi si manifestò il consueto segno, quello demonico. Allora, mi sedetti di nuovo..."
    - Phaedr. 246b "E' accaduto che è venuto a me il segno demonico consueto - mi trattiene sempre da quello che sto per fare"
    - Theaet. 151a "E se con alcuni di loro il demone che in me è sempre presente mi impedisce di congiungermi, con altri invece lo permette"
    - Theag. 128d "Infatti è un demone, che per divina disposizione mi accompagna sin dalla fanciullezza, una voce che quando sopraggiunge mi indica sempre di non fare ciò che sto per fare, ma non mi spinge mai a far nulla" (in realtà appena una pagina dopo, a Theag. 129e, pare venir data un'indicazione in senso contrario; questo è uno dei motivi per cui alcuni critici, come l'Abbagnano, sono scettici nell'attribuzione platonica di questo dialogo)
  • Più ampio all'interno della coscienza del filosofo è il ruolo destinatogli dall'altro biografo e allievo di Socrate, purtroppo spesso dimenticato per quanto concerne la sua produzione filosofica, ossia Senofonte. Secondo questi, infatti, il demonio socratico aveva principalmente un ruolo positivo, dando indicazioni a Socrate sul modo di agire conforme al logos, e non semplicemente trattenendolo da azioni empie.
    Possiamo trarre tre riferimenti dai Memorabilia a sostegno di questa tesi:
    - I, 1.4 "Ei diceva d'avere un nume che davagli i segni"
    - IV, 3.12 "Gl'iddii per questo verso ci aiutano, [...] ci mostrano le cose future e ci insegnano come possano nel miglior modo avvenire"
    - IV, 8.1 "Socrate diceva d'avere una divinità che l'avvisava di quel che dovesse o non dovesse fare".
Con il tempo, i filosofi smisero di interrogarsi sull'azione del demone (eran discordanti quegli stessi che avevan conosciuto Socrate, figurarsi come avrebbero potuto ben congetturare quei che a loro dovevano ricorre per saperne qualcosa su di lui), e passarono piuttosto a ricercare l'origine di questo fenomeno, il quale con il suo alone di mistero e d'incoerenza apparente affascinava (e continua ad affascinare) filosofi e critici di ogni generazione. In particolare, andiamo a vedere come gli analisti cristiani cercarono di identificare e spiegare questo fenomeno. Anche qui possiamo leggere due opposte correnti di pensiero:
  • Alcuni autori (una minoranza, per verità), schierandosi dalla parte di Socrate, che essendo stato forte sostenitore dell'immortalità dell'anima (cfr. Phaedo) era visto come un precursore della dottrina cristiana, vollero vedere in questo segno divino un qualcosa inviato dal Signore Iddio. Leggiamo in particolare l'analisi di Eusebio di Cesarea, che non esita a paragonarlo alla "voce di Dio" con cui lo Spirito dell'Altissimo parlava ai profeti d'Israele, dicendo che egli "udì la voce di Dio, quando stava contemplando la disposizione del creato, così ben fatto e imperituramente combinato da Dio" (Praep. Evang. XIII, 12).
    Interessante è anche la proposta di Clemente Alessandrino, che nei suoi Stromata identifica quel δαιμόνιον con un angelo custode (cfr. Strom. V, 14).
  • La maggioranza degli autori è invece concorde nel condannare Socrate, il quale non possedeva la verità rivelata di Cristo, né aveva la fede nel Messia venturo de' Patriarchi e profeti d'Israele, e dunque non poteva essere un uomo di Dio. In questo senso parlano, tra i molti, i seguenti autori, i quali non esitano a scorgervi un demone malvagio e fuorviante, un elemento satanico che porta Socrate sempre più lontano dalla verità cristiana:
    - Tertulliano, che due volte cita il δαιμόνιον, chiamandolo prima pessimum paedagogum (De anima I, 4), e poi appellandolo come dehortatorium a bono (Apologia XXII, 1)
    - Minucio Felice, che scrive "Socrate, quel commediante ateniese, che confessò di nulla sapere, e che per l'approvazione di lui fatta dal demonio, avvegnachè menzognero, fu glorioso" (Octav. XXXVIII, 5)
    - S. Cipriano di Cartagine (cfr. Quod idola dii non sint, VI)
    - S. Agostino d'Ippona: "Anche l’amicizia di Socrate per il demone non merita lode. Apuleio stesso ha ritegno a parlare di tale amicizia al punto da intitolare il libro Il dio di Socrate, perché stando alla sua tesi con cui criticamente ed esaurientemente distingue gli dèi dai demoni non lo avrebbe dovuto denominare il dio ma il demone di Socrate. Ma preferì inserire il concetto nel contesto anziché nel titolo del libro. Infatti mediante la sana dottrina che ha gettato luce sulla cultura tutti o quasi tutti aborriscono il nome dei demoni al punto che prima della teoria di Apuleio, con cui si difende la dignità dei demoni, chiunque leggeva il titolo di un libro sul demone di Socrate pensava che egli non fosse normale. E in definitiva lo stesso Apuleio che cosa ha trovato da lodare nei demoni fuori della sottilità e impassibilità del corpo e la sfera più alta della dimora? Dei loro costumi, parlando in generale di tutti, non ha detto niente di bene ma piuttosto parecchio di male". (De Civitate Dei VIII, 14)
Fonti: Critica di M. M. Sassi all'Apologia (rielaborata in senso cristiano), testi citati dei commentatori antichi di Socrate

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