mercoledì 21 novembre 2018

La traduzione del Gloria: problematiche sottese a Lc 2,14

Notizia recentissima e suscitante un malcelato scalpore è il già preannunziato cambiamento della traduzione italiana in uso nella liturgia riformata del Pater e del Gloria, resi, a detta della Conferenza Episcopale Italiana, "più fedeli al testo evangelico".

Sull'inopportunità della nuova traduzione del Pater si è già detto e scritto molto nei siti e nei giornali cattolici, citando i commenti dei Padri e dei Dottori della Chiesa in sostegno della traduzione più lineare del ne nos inducas in tentationem. Senza scomodare sì ampi commentari, leggere i quali è comunque opera meritoria per la nostra formazione, sarebbe bastato riportare alla mente alcuni passi scritturali molto conosciuti: per esempio, il brano evangelico in cui Nostro Signore fu portato dallo Spirito nel deserto "per essere tentato", oppure il fatto che Iddio ci metta alla prova "come oro nel crogiuolo", richiamato in Sapienza 3,6, Giobbe 23,10 e altri passi ancora. San Paolo stesso afferma che Dio "darà la tentazione e il modo di uscirne". Ma, ancora più semplicemente, sarebbe bastata una minima conoscenza della lingua latina (e prima ancora di quella greca): i Vangeli riportano il termine εἰσενέγκῃς, congiuntivo aoristo del verbo εἰσφέρω, letteralmente "portare dentro"; l'equivalente latino (condivide infatti la radice indoeuropea *bher, idea di "portare", e il prefisso ingressivo) sarebbe infero, rispetto al quale induco (lett. "condurre dentro") presenta una sfumatura già più moderata. E, volendo, basterebbe conoscere anche soltanto la lingua italiana, esulando un po' dall'impiego stereotipato, semplicistico e sovente erroneo che se ne fa oggi, per rendersi conto che indurre, al di là della sfumatura quasi di atto subdolo cui lo colleghiamo ai nostri giorni, ha una gamma di significati ben più ampia.

Invocare la fedeltà al testo originario e la conoscenza delle lingue classiche appare tuttavia inutile di fronte alla CEI, le cui traduzioni sono sempre state caratterizzate da un'abbondante quantità di errori. Tra i più noti, un pro multis che diventa "ecumenicamente" per tutti e un ut intres sub tectum meum che diventa di partecipare alla tua mensa (traduzioni che farebbero sorridere e piangere al contempo qualsiasi insegnante di ginnasio le trovasse scritte dall'alunno in versione).
La stessa traduzione del Pater ne contiene almeno uno palese e grossolano, ancorché diffuso già in passato, ossia quello di leggere malo come ablativo di malum (per fare una battuta, almeno non hanno tradotto "liberaci dalla mela"!), quando assai più probabilmente (quasi certamente, se confrontiamo con il greco, in cui πονηρὸς,-ὰ,-ὸν [nel testo al gen. πονηροῦ] indica preferibilmente un essere, piuttosto che una cosa) è ablativo del maschile malus, cioè il Maligno. E questo solo per soffermarci all'errore evidente, senza entrare nell'annosa questione della doppia valenza di ἐπιούσιος (quotidiano e sovrasostanziale), sulla quale sono stati scritti libri interi.

Proprio però una pretesa fedeltà al testo originale di fronte invece all'errore e alla mistificazione evidenti del testo stesso impone di fare una riflessione, per quanto breve, anche sull'altro testo liturgico modificato in detto frangente, ovverosia il Gloria in excelsis. La cosiddetta "dossologia maggiore", che non è altro che una collazione di versetti più o meno in sequenza, si è storicamente presentata sotto molte forme: il testo latino presenta alcune aggiunte rispetto a quello greco, ma si ferma a in gloria Dei Patris, mentre il secondo prosegue con altri numerosi versetti; il rito aquilejese, giusto per citarne uno, prevedeva ben due forme di dossologia maggiore, di cui una contenente un rafforzamento del concetto trinitario con l'aggiunta di un et Sancte Spiritus, e l'altro con il tropo Mariae filius, riservato alle feste della Madonna. Tuttavia, un versetto è sicuramente inalienabile e certo, ovverosia il primo, tolto direttamente dal Vangelo (S. Luca 2,14). Eppure, i novatori-traduttori hanno voluto andare a toccare proprio quello!

Il discorso attorno a questo versetto, e particolarmente al sostantivo εὐδοκία(ς) (rarissimo nella prosa cristiana antica, hapax nella Sacra Scrittura) è quantomai complesso; partiamo intanto dal testo latino: tanto quello geronimiano (IV sec.), quanto quello della Vetus Itala (II-III sec.) e persino la pessima "ritraduzione" (se così si può chiamare) fatta negli anni '50 sono concordi nell'affermare: et in terra pax hominibus bonae voluntatis, con un normalissimo genitivo di qualità, ch'è stato comunemente tradotto nelle lingue nazionali di buona volontà.
Lessi uno studio paralinguistico che giustificava la traduzione (già circolante da decenni) amati dal Signore, in cui dunque gli uomini diventano oggetto della benevolenza di Dio, appellandosi alla diatesi del verbo greco δοκέω (onde il deverbativo εὐδοκία); tale lettura mi è parsa alquanto imprecisa, anzitutto perché nessun elemento mi fa supporre la passività del termine, in secondo luogo perché (cosa che lo stesso studio era costretto ad ammettere) se anche fosse passivo, nessun elemento se non un'improbabile interpretazione ad sensum determinerebbe il soggetto, e soprattutto perché sarebbe difficilmente giustificabile (anche tirando in ballo i semitismi) trasformare un genitivo qualitativo in una sorta di proposizione relativa passiva.
Se volessi indicare in greco negli uomini in cui si compiace, forte dei modelli a me noti, impiegherei di preferenza un participio chiaramente passivo (magari esplicitando pure l'agente) e soprattutto l'articolo! Se anche supponessimo per semitismo che un genitivo possa indicare un'idea più complessa, e ammesso (e non concesso) che si debba intendere il termine passivamente, in assenza di articolo non è usualmente possibile in greco rendere una determinazione selettiva, dunque in ogni caso amati dal Signore non dovrebbe restringere il campo a una sola parte dell'umanità (qui in realtà può esserci anche altra lettura, vide infra).

Questi sono solo alcuni dei problemi evidenti della nuova traduzione; se volessimo però fare realmente quello che non hanno fatto i traduttori della CEI, cioè andare a vedere i testi originali, ci accorgeremmo che la lezione Δόξα ἐν ὑψίστοις Θεῷ καὶ ἐπὶ γῆς εἰρήνη ἐν ἀνθρώποις εὐδοκίας, abbondantemente oggi spacciata per originale, non compare che in un'edizione di critica filologica quale il Novum Testamentum Graece di Eberhard Nestle (Münster, Institut für neutestamentliche Textforschung, 1898), rivista nel '27 dal figlio Erwin e poi nel '52 da Kurt Aland (onde la sigla Nestle-Aland con cui s'indica comunemente questa edizione critica). Essa raccoglieva le osservazioni critiche di numerosi filologi; relativamente a Luca 2 si rifaceva all'interpretazione (originale e unica) di Konstantin von Tischendorf (+1874), teologo e filologo di Lipsia, che dallo studio di alcuni manoscritti sinaitici e delle citazioni patristiche suppose di dover leggere l'ultima parola di Luca 2,14 come il genitivo εὐδοκίας (sua argomentazione tra le più solide fu che gli antichi traduttori latini della Scrittura dovessero avere di fronte un genitivo per aver tradotto tutti concordemente bonae voluntatis).

Tutti le edizioni precedenti si rifanno però alla lezione che potremmo a buon diritto considerare corretta quantomeno per l'importanza ricoperta nella Storia della Chiesa e per il consenso unanime avuto per secoli (principio di Tradizione), tuttora ufficiale nella Bibbia e nella liturgia della Chiesa Greca, che recita: Δόξα ἐν ὑψίστοις Θεῷ καὶ ἐπὶ γῆς εἰρήνη ἐν ἀνθρώποις εὐδοκία. Il discusso genitivo risulta essere quindi un nominativo! Il versetto suonerebbe dunque così: Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace sulla terra e benevolenza tra gli uomini.
Questa è indubbiamente una lectio facilior, che in filologia verrebbe a priori scartata o comunque guardata con sospetto e sottovalutata rispetto alla lectio difficilior (per un principio che, pur da cultore di filologia, mi ha sempre fatto sorridere e, a leggere Luciano di Samosata, pare facesse sorridere già nel II secolo d.C.). Tuttavia lo studio della Sacra Scrittura non può assimilarsi a quello degli altri testi antichi, perché s'inserisce nell'alveo di una Tradizione di origine apostolica e divina, tràdita sino a noi attraverso i Padri, che è di valore estremamente superiore a qualsiasi ragionamento filologico (anche perché, viste le bizzarre posizioni di molti [presunti] filologi biblisti dell'ultimo secolo, ci sarebbe di che riscrivere l'intera Bibbia e buttare a mare buona parte del sostrato scritturale della nostra Fede...).

La quasi totalità delle traduzioni antiche della Sacra Scrittura (prescindendo da quella slava, che rispecchia i testi costantinopolitani del IX secolo) segue la lezione appena presentata. Tra tutte, segnalo la Bibbia di Re Giacomo (1611), che riporta: Glory to God in the highest, and on earth peace, good will toward men; e la Bibbia di Giovanni Diodati (1649): Gloria a Dio ne’ luoghi altissimi, Pace in terra, Benivoglienza inverso gli uomini. Anche se queste versioni afferiscono all'ambito riformato, sono imprescindibili testi di studio per chiunque affronti l'annosa questione della traduzione di testi biblici, soprattutto per la ratio e il modus operandi encomiabilmente preciso che vi fu dietro (il calvinista ginevrino Diodati non era certo gran teologo, nemmeno a detta degli eretici, ma era un eccellente e dotto linguista, peraltro uno dei pochi al tempo ad avere conoscenza profonda dell'ebraico, e la sua traduzione, ancora una volta a prescindere dall'eretica e pietistica interpretazione teologica che ne dà nelle note, è sempre stata riconosciuta dagli accademici come un lavoro filologico di magistrale portata e straordinaria accuratezza).

A questo punto, sciolte le questioni filologiche, è d'uopo ripercorrere brevemente le vicende storiche. Come molte delle "libere interpretazioni" delle versioni CEI della Scrittura (quelle presentate all'inizio sono le più note perché fanno parte della liturgia, ma la Bibbia CEI è zeppa di traduzioni a dir poco fantasiose), queste novità non sono frutto di un'invenzione originale, ma sono ricalcate da traduzioni protestanti recenti (le quali, a differenza di quelle antiche, sono prive di metodo linguistico affidabile, e sono volte principalmente a veicolare concetti teologici distorti): in Italia per esempio la Bibbia tradotta dal valdese Luzzatti nel 1927 presenta: pace in terra fra gli uomini ch’Egli gradisce!; e nella più o meno coeva Riveduta inglese si legge: on earth peace among men in whom he is well pleased.

Onde potrebbero esserci anche delle obiezioni teologiche da muovere alla nuova e discussa traduzione. Infatti, a seconda che gli amati dal Signore siano intesi in senso ampliativo o restrittivo, siamo di fronte a due posizioni dottrinali diverse e ambedue problematiche:
a) Se amati dal Signore è ampliativo, s'inserisce in quella corrente di "buonismo teologico" che in realtà prelude all'universalismo per cui viene meno il dogma extra Ecclesiam nulla salus, dacché tutti gli uomini sarebbero amati dal Signore.
b) Se invece è restrittivo (questa pare non essere la lettura che viene data oggi dai nuovi traduttori, ma probabilmente era quella di Luzzatti), si conforma alla dottrina calvinista dell'elezione incondizionata, per cui Dio ha già scelto alcuni da salvare (quelli che ama e che sono destinati a essere salvati; cfr. dottrina della perseveranza dei santi) e altri da dannare (quelli che non ama, e dunque ai quali non si applica il frutto della Redenzione, cfr. dottrina della redenzione limitata). Una dichiarazione di protestantesimo estremo abbastanza palese.
In ambo i casi, viene meno un concetto della dottrina ortodossa che invece (sia o meno la traduzione esatta, come abbiamo detto) l'espressione agli uomini di buona volontà rendeva appieno, cioè la sinergia necessaria tra la grazia divina e l'azione degli uomini (che ovviamente parte dalla volontà) perché questi ultimi raggiungano la salvezza ottenuta loro dal Cristo.

Infine, possiamo fare una riflessione sulla base che spinge i novatori a modificare il testo del Gloria, così come quello del Padre Nostro, che è una base tristemente umana e razionale che va contro l'essenza del Cristianesimo e la Rivelazione. San Paisios l'Athonita diceva che tutti gli errori del mondo cristiano in Occidente si possono ricondurre a uno solo: il razionalismo. In altre parole, il ragionare umanamente sulla Rivelazione anziché viverla, sino a modificarla per rendere "umana essa stessa". Come scrive qui un amico riferendosi alle modifiche al Pater: "Queste riforme indicano un profondo VUOTO di spiritualità, ossia di vita in Cristo, vuoto colmato da soli ragionamenti che appiattiscono e svuotano la rivelazione. Siamo peggio che nell'eresia, almeno nelle eresie storiche c'era rispetto almeno per qualcosa..."

6 commenti:

  1. Devo dire che leggerla è stato piacevole!

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    1. Lo scritto è molto interessante, mi preme soprattutto rilevare che la questione dell'elezione incondizionata, riguarda anche la questione della gemina praedestinatio sollevata nel IX secolo da Godescalco di Orbais, condannato in due sinodi, il primo presieduto da Rabano Mauro e il secondo da Incamaro di Reims. Complimenti all'autore, riflessione convincente....

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  2. mi pare molto bene articolata l'esposizione e convincente. Questi mutamenti sfigurano i testi sacri

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  3. spiegazione molto bene articolata e convincente, complimenti all'autore

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  4. interessante molto. Per quanto riguarda la teologia calvinista dell'elezione incondizionata, avrei ricordato anche Godescalco di Orbais, il quale con la sua dottrina della "gemina praedestinatio" superò l'autorità di Sant'Agostino... complimenti all'autore del testo!

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  5. Anche a voler prendere il testo nella versione greca accettata dalla CEI, i problemi non mancano. Biblicamente parlando, "amore" è sempre "amore di elezione/predilezione". Invece, nel criterio automatico della cultura ecclesiastica d'oggi, "amore" è parola magica amore è costruita su un sottofondo o un retrogusto global/omologato, che scambia ad esempio (inavvertitamente?) "il prossimo" con "il più lontano possibile". A conferma, un'infinità di esempi dalla traduzione CEI 2008: che spiana le pieghe del testo e sotto la cappa banalizzante della parola magica occulta realtà come grazia, misericordia, elezione, predilezione, beneplacito...).

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