venerdì 12 giugno 2020

Il voto della Serenissima Repubblica al Santo di Padova

Heros nitenti desuper
Caeli coruscat lumine;
Quo se beatam praedicat
Custode, tellus Adriae.

Il campione di fulgida luce
risplende dall'alto del cielo,
e d'averlo come patrono
si bea la terra d'Adria.

(Breviario Romano-Serafico, Inno del
Vespro della festa di S. Antonio di Padova)

Pietro Liberi, Venezia supplica S. Antonio per il felice esito della guerra di Candia, 1652-56,
Basilica di S. Maria della Salute (Venezia)

Tra i santi che hanno illustrato la terra veneta figura indubbiamente S. Antonio di Padova; il suo culto non è tuttavia legato alla sola città di Antenore, ma è ben radicato anche a Venezia, ove risulta venerato sin dal XIII secolo [1], e della quale egli è Patrono secondario. Al santo taumaturgo, ogni anno la città lagunare scioglie un solenne voto nella Basilica della Salute, ove si custodisce una preziosa reliquia dell'ulna del santo. Così mons. Antonio Niero rammenta l'origine del patrocinio antoniano su Venezia:
Giovanni Grimani, già podestà di Padova, il 27 febbraio 1651, proponeva per il buon esito della guerra e protezione dell'armata, di erigere un altare al santo in Basilica della Salute o in quella di S. Marco, con qualche effige o piccola reliquia e visita annuale del doge. Discussa la cosa ed approvata il 29 dello stesso mese, fu dato incarico ai Rettori di Padova di ottenere una reliquia del santo. Le difficoltà opposte dai Padovani non furono da poco; alla fine la reliquia fu concessa ed entrò in città il 9 giugno, per la via del Brenta, con un corteo fastoso puntualmente descritto dai cronisti, ed accolta come si soleva fare per i grandi personaggi. Dal reliquiario di S. Marco, dov'era stata collocata, fu condotta con processione solenne dal Doge, dal Senato, dal Clero e popolo lungo un ponte di barche gettato sul Canalgrande, sino in Basilica della Salute il 13 dello stesso mese.
Progettò l'altare il Longhena, proto della basilica; nel 1656 era già compiuta la pala commissionata al pittore padovano Pietro Liberi; l'anno dopo l'altare era ormai terminato.
Quasi vent'anni dopo in altra circostanza la Repubblica godette del patrocinio del santo, in seguito alla cessazione della peste che aveva colpito l'armata veneziana nell'assedio di Castelnuovo, onde con decreto senatoriale del 5 luglio 1687 fu incaricato il Bonacina di lavorare in isbalzo la scena in una tavola votiva assegnata all'altare del santo.
Dopo il 1651, il doge si recava ogni anno il 13 giugno in processione alla Salute, in manto chermisi e d'oro con mozzetta ad udire la Messa e venerare la reliquia. Caduta la Repubblica il voto continuò sino al 1954, quando prima fu abolito il ponte ed ora con decreto patriarcale in data 5 dicembre 1963 la festa è stata traslata in chiesa a S. Moisè.
A. NIERO, "I santi Patroni", in Culto dei Santi a Venezia, "Biblioteca Agiografica Veneziana 2", Venezia, Studium, 1965, pp. 81-82.
L'altare di S. Antonio del Longhena alla Salute, parato a festa per la solennità antoniana. Oltre al meraviglioso paliotto in oro a sbalzo e preziosi, si noti il tronetto per l'esposizione della reliquia.

La reliquia dell'ulna di S. Antonio venerata durante una Messa solenne
in rito tradizionale celebrata alla Basilica della Salute nel giugno 2018.

Circa le modalità di scioglimento del voto, dacché la festa cade quasi sempre infra un'Ottava privilegiata (come quest'anno quella del Corpus Domini), leggiamo negli Ordo storici del Patriarcato di Venezia: "Oggi, nella Patriarcale Basilica, dopo Terza si canta la Messa del giorno. Dopo Nona si compie una Processione da parte del Capitolo Patriarcale e del Clero delle Nove Congregazioni [2] alla Basilica di S. Maria della Salute, e ivi per adempiere al voto della Città - nell'anno 1687 - si canta la Messa di S. Antonio di Padova Confessore, Patrono delle Venezie - cappella canonicale - con la partecipazione dell'autorità municipale. Si dice il Gloria, una sola orazione, il Credo, e alla fine l'Evangelo di S. Giovanni. Nella medesima Chiesa tutti i Piovani della Città, da sé o per interposto, a norma delle Costituzioni Sinodali, sono obbligati a celebrare".

La rubrica ivi riportata si riferisce chiaramente a una situazione successiva alla caduta della Repubblica, visto che il doge è rimpiazzato dall'autorità municipale e si parla solo del Capitolo Patriarcale e non di quello della Basilica Ducale, e antecedente all'abolizione del ponte votivo, che Niero attesta essere avvenuta nel 1954, in concomitanza con la soppressione di molti altri ponti votivi che ornavano la città in occasione delle sue grandi feste (i due soli sopravvissuti allo scempio furono quello della Salute il 21 novembre e quello del Redentore la terza domenica di luglio). La traslazione della festa a S. Moisè di cui parla Niero non pare essere durata troppo a lungo, perché sin dagli anni '80 vediamo tornare annualmente il Patriarca a celebrare alla Basilica della Salute, seppur senza processione [3]. L'Ordo commette un errore facendo risalire il voto al 1687, anno della consacrazione della Basilica, mentre esso già da trentasei anni era stato compiuto (del resto nella Basilica si celebrava annualmente sin dal 1631 il 21 novembre il solenne scioglimento del voto alla Madonna in occasione della pestilenza di quell'anno, nonostante l'edificio dovesse ancor essere completato e dedicato). Alcuni Ordo, infine, riportano anche la possibilità che in ogni chiesa urbana venga celebrata in questo giorno una messa votiva solenne al Santo.

La statua lignea di S. Antonio (1450) all'altare del santo nella Basilica dei Frari. Il disegno del nuovo altare, che andava a sostituire un precedente ligneo quattrocentesco a sua volta eretto su un altare duecentesco sempre dedicato al santo patavino, è anche qui di Baldassarre Longhena.

Alla Basilica dei Frari S. Antonio compare pure nella celeberrima Pala Pesaro di Tiziano, dipinta tra il 1519 e il 1526 per ringraziare la Madre di Dio della vittoria di Santa Maura ottenuta da Venezia contro i Turchi nel 1502. L'intera basilica francescana è piena di immagini del Santo: Niero menziona, oltre alle già viste, una statua goticizzante in facciata; una nel barco del Gambelli (1475?); rilievo nel coro del Canozzi; ancona di A. Vivarini (1468); tela di anonimo del secondo quattrocento; statua lignea in sacrestia; tela del tintorettesco Floriano (1600) nel monumento Garzoni; del Rosa nel 1670, ivi; del Pittoni (1728) ivi; di G. Einz nel 1670 sotto l'organo; tra i santi francescani di B. Licinio (1489-1559); episodi della vita nella vetrata absidale del Beltrami (1907).
Altro luogo di devozione veneziana al santo, oltre alla già citata Basilica di S. Maria Gloriosa dei Frari, dei francescani conventuali, è la chiesa di S. Francesco della Vigna a Castello, dei minori, dove tradizionalmente ogni anno si compie una solenne processione con il simulacro ligneo del santo, accompagnata da una sagra popolare (forme di festeggiamento molto amate che accompagnavano quasi tutte le feste patronali della città sin da tempi antichi, come evinciamo dai ritratti che ne fanno i vedutisti del Settecento).

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NOTE

[1] Alla Basilica dei Frari l'erezione del primo altare in onore del Santo patavino risale al 1255. La celebrazione cittadina della festa è attestata, oltreché nelle lettere dei legati apostolici e nelle cronache dei pellegrini veneziani a Padova, nei messali marciani, e in taluni vi è pure iscritta la festa della Traslazione delle reliquie al 15 febbraio. Curiosamente, in uno di questi messali, datato al 1323, l'introito è quello dei Dottori della Chiesa, benché S. Antonio non lo sia stato ufficialmente dichiarato fino al secolo scorso. Una tradizione popolare priva di fondamento storico vuole che il Santo abbia soggiornato in città poco prima della sua morte, ospite della famiglia Civran.

[2] Le Nove Congregazioni di cui parla la rubrica, dette anche "chieresìe" dai veneziani, sono nove pie società del clero urbano, la prima delle quali fu istituita secondo la tradizione nel X secolo dal santo doge Pietro I Orseolo, dedite al reciproco sostegno economico tra confratelli, al suffragio di quanti tra essi sono defunti, e alla decorosa e solenne celebrazione delle maggiori feste cittadine. In età repubblicana le Congregazioni erano svincolate dall'obbedienza tanto al Patriarca quanto al Primicerio, e dipendevano esclusivamente dal Consiglio dei Dieci. Le congregazioni, ancora esistenti e il cui numero nonario si completò nel 1291, sono quella di S. Michele Arcangelo, di S. Maria Mater Domini, di S. Maria Formosa, dei Santi Ermagora e Fortunato, di S. Canciano, di S. Polo, di S. Silvestro, di S. Luca e di S. Salvador.

[3] C'è da sperare che questa antica e venerabile tradizione possa essere ripristinata, vista la devozione che ancora nutre il popolo veneto per il Santo di Padova. Nel 2019, dopo oltre sessant'anni di oblio, con felice decisione la giunta municipale di Venezia ha disposto che tornasse ad erigersi il ponte votivo che collega le Fondamente Nuove all'isola cimiteriale di S. Michele nell'ottavario dei morti. Ora, al termine dell'epidemia del Coronavirus, il rettore della Salute e altri parroci urbani hanno pubblicamente auspicato il ritorno del ponte votivo a S. Antonio. Chissà che presto anche questo ponte, insieme magari ad altri ancora, possa tornare a significare la pietà dei veneziani per le proprie feste religiose.

BIBLIOGRAFIA DI APPROFONDIMENTO

Le vicende della guerra di Candia per il voto e la traslazione delle reliquie a Venezia sono in V. PIVA, Il Tempio della Salute eretto per voto de la Repubblica Veneta, XXVI-X-MDCXXX, Venezia 1930, pp. 55-66.
Documentazione d'archivio in p. DAVIDE DA PORTOGRUARO O.F.M. CAPP., L'altare votivo della Repubblica Veneta a S. Antonio di Padova, in: Il Santo, IV (1931), pp. 1-30 dell'estratto.

12 commenti:

  1. Grazie per l' istruttivo e bellissimo articolo dedicato al "nostro" Santo. Sempre caro il ricordo della mia povera nonna che recitava il "sequeri" (il noto responsorio "si quaeris" nel suo latino un po' creativo) ogni volta che perdeva qualcosa o quando minacciava un temporale. Osservavo la pala del Liberi: qualcuno potrebbe gridare allo scandalo nel vedere una donna in vesti di Venezia comparire in un quadro sacro sopra un altare (come si potrebbe criticare che un santo stia in gloria sopra un altare). Nonostante la non "iconicita'" della pittura d' altare di epoca barocca non riesco a non percepire una tensione religiosa, una sorta di trasfigurazione dell' umano nel divino.

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  2. Ho riletto l' articolo e mi e' sorta una domanda: nelle note vedo che si parla di Patriarca e Primicerio: che funzioni avevano all'interno della chiesa veneziana? So solo che il primo esercitava a San Pietro di Castello, mentre il secondo mi pare fosse il capo del clero della basilica ducale. Dunque due vescovi in una città?? Lessi poi da qualche parte che il Doge era anche "capo della chiesa" a Venezia tanto che il concilio tridentino gli riconobbe una sorta di status speciale. Una sorta di "cesaropapismo". Potrei avere qualche breve spiegazione? Grazie per la pazienza.
    Giordano dalla provincia di Treviso.

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    1. Molto in sintesi: anticamente nella laguna c'erano parecchie diocesi (Olivolo, Equilio, Torcello, Metamauco, etc.): una di queste, Olivolo, l'isola dove sta S. Pietro di Castello, assume sempre maggior importanza, fino ad assorbire gradualmente la giurisdizione delle altre (Caorle e Torcello resisteranno però sino all'XIX secolo). Nel 1451 il titolo patriarcale che spettava alla sede gradese dal tempo dello scisma dei tre capitoli (ma dal XII secolo il Patriarca di Grado risiedeva stabilmente a Venezia, nella chiesa di S. Silvestro a Rialto, e aveva giurisdizione su non poche chiese urbane, scatenando contese con la diocesi castellana) fu trasferito al vescovo di Castello, che divenne in tal modo Patriarca delle Venezie (Arcivescovo Metropolita della Provincia Veneta, Primate di Dalmazia, etc.).
      Tuttavia, in città esisteva stabilmente una "prelatura nullius", quella della Basilica Ducale di S. Marco, cappella dogale, il cui Primicerio aveva giurisdizione sulla Basilica e su quattro chiese urbane nel sestiere di S. Marco. La Basilica Ducale era di fatto la "chiesa di Stato", quello che era S. Sofia per l'imperatore bizantino. Il doge aveva un suo trono dentro il Santuario, partecipava alle preghiere ai piedi dell'altare alla liturgia marciana, che si svolgeva secondo il rito proprio (di derivazione aquileiese): aveva insomma un ministero sacro oltre a quello magistratuale.

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    2. Lo status della Repubblica Veneta era sicuramente molto particolare dal punto di vista religioso. Era realmente uno stato teocratico, molto simile all'Impero Bizantino: non un "cesaropapismo" (termine molto impreciso e contestato dalla letteratura scientifica), che si potrebbe più impiegare per la corona britannica e la chiesa anglicana, ma una partecipazione del sovrano alla res sacra, come detto sopra.

      I privilegi di tutta Venezia erano comunque molteplici. Entrambi i capitoli canonicali (quello di Castello e quello di S. Marco) erano "cardinalizi", cioè eleggevano il proprio Vescovo (e, conseguentemente, il loro abito prevede la cappa magna rossa e la mozzetta d'ermellino al modo dei cardinali). Il Primicerato della Ducale Basilica era una vera propria Chiesa nazionale, affatto indipendente dalla curia romana; il Patriarcato era invece una Diocesi "normale", ma con moltissime libertà e autonomie rispetto alle altre diocesi. Il clero marciano e quello castellano comunque erano assai compenetrati, visto che si diveniva canonici della Basilica Marciana per cooptazione dogale (sentito il Primicerio), in genere tra il clero urbano e quindi castellano.

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    3. L'esistenza di Chiese nazionali indipendenti da Roma in età post-tridentina (come giustamente lei citava, il Concilio Tridentino emette più di un decreto per certificare che a Venezia si deve proseguire con lo status quo, non solo nella compenetrazione tra Stato e Chiesa, ma anche in altre pratiche, come il matrimonio "misto" con i greci che abitavano nel territorio veneziano etc.) non deve stupire: la Chiesa di Francia lo è stato di fatto fino alla Rivoluzione, e pochi anni dopo, nel 1806, caduta da nove anni la repubblica veneta, fu abolito il Primicerato di S. Marco e gran parte dei privilegi della Chiesa Veneta: i capitoli furono fusi e il Patriarca si trasferì a S. Marco.

      L'idea universalistica della Chiesa ("alla Pio IX") è un fenomeno antistorico e moderno, nato solo in conseguenza delle rivoluzioni anticristiane che abbatterono le Chiese nazionali. L'idea moderna (ottocentesca) di Chiesa è una diretta conseguenza della Rivoluzione francese. Di questo avremo modo di parlare, perché alle rivoluzioni si devono molte altre decadenze, non ultima quella dell'Ufficio Divino.

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  3. Quindi l'idea che il papa di Roma abbia una giurisdizione su tutte le diocesi del mondo cattolico e' una concezione moderna risalente all' 800? Stupisce un po' achi come me non e' addentro a queste questioni pensare a chiese "indipendenti dalla curia romana" anche in epoca post tridentina dove si e' portati a pensare che fosse un epoca in cui si consolida quella sorta di "monarchia papale" sulla chiesa. Ma mi rendo conto che forse il discorso e' più complesso di come talvolta lo si considera. Poi immagino che un conto sia un primato spirituale, un conto un primato "secolare" in cui il papa nomina i vescovi nelle varie diocesi. Interessante che a venezia Patriarca e primigenio marciano fossero eletti dai rispettivi capitoli csnonicali. E il papa a Roma non aveva niente da dire??

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  4. Scusi se sono noioso ma sono argomenti davvero molto interessanti per comprendere molte cose che vediamo pure oggi.

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  5. L'idea della giurisdizione universale nasce sicuramente con la riforma gregoriana dell'XI secolo, intesa come strumento per combattere le dilaganti pratiche della simonia e del nicolaismo tra i vassalli dell'impero tedesco e i vescovi, ma fino al XIX secolo non otterrà mai una reale messa in pratica. La monarchia papale nasce nel basso Medioevo, ma diventa una realtà effettiva solo con Pio IX (trovo sempre molto interessante la coincidenza con la perdita del potere temporale).

    Molti capitoli un tempo eleggevano il proprio vescovo: anche Milano, per esempio, ma se ne potrebbero citare a iosa. Roma sicuramente conferiva la nomina patriarcale all'eletto, in tal modo ufficializzandola, anche se vi furono casi diversi: per esempio nel 1608, essendo Venezia sotto interdetto, il capitolo elesse il Patriarca pur non avendo il placet romano. Sulla nomina del primicerio invece la voce romana era quasi nulla, anche perché formalmente egli non era un vescovo, pur possedendo tutti i diritti dei vescovi, compresa l'ordinazione dei preti (cosa solitamente non concessa ai prelati nullius).

    Non si preoccupi: capisco il suo sconcerto. Purtroppo la nostra percezione è quasi sempre frutto di una visione non storica: quando si inizia a conoscere la storia, capiamo che molte cose non sono esattamente come crediamo o come ce le raccontano. A ricordarci l'autentica Tradizione resterà sempre la storia, con buona pace del card. Manning.

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  6. Ultima cosa e poi sto zitto: il primicerio marciano non era vescovo? Come poteva ordinare i preti? Non ho afferrato. Poi a s.marco si celebrava in un rito di derivazione aquileiese. Come se Venezia si considerasse erede di quell' antico e insigne patriarcato?

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    1. Alcuni primiceri erano anche Vescovi, ma non tutti: si pensi al celeberrimo cardinal Foscari. Si tratta, come detto, di un prelato nullius (tipico caso degli abati, ma nella penisola italica vi erano molte prelature di questo tipo, si pensi ad Acquaviva o a S. Lucia del Mela): non necessariamente dotato di consacrazione episcopale, ma detentore di una piccola giurisdizione territoriale al modo dei vescovi, con le insegne liturgiche episcopali e alcuni poteri (per esempio quello di cresima all'interno del proprio territorio). Il primicerato di S. Marco aveva tuttavia privilegi di gran lunga superiori a quelli degli altri prelati nullius, tra cui quello di celebrare sempre pontificalmente (generalmente era concesso solo in poche occasioni l'anno agli altri prelati nullius), e quello di ordinare diaconi e preti (generalmente i prelati nullius potevano solo conferire gli ordini minori).

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    2. Il rito aquileiese, che aveva molte varianti tra cui una "marciana" o "lagunare", si celebrava in tutta la Venezia lagunare, che fu sotto la metropolia aquileiese fino allo scisma tricapitolino (quando passò a quella gradese, che comunque manteneva il rito di Aquileia). Il Patriarcato optò per il rito romano nel 1596, anche se il clero non cessò mai di celebrare alcuni rituali col rito proprio (per esempio le esequie); la Basilica invece mantenne il suo rito fino al termine della sua esistenza, con alcune caratteristiche proprie aggiuntive (alcuni costumi di derivazione alessandrina, ma anche -per esempio- una traduzione dei salmi dell'ufficio diversa dalla Vulgata).

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