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XXXIV. Hanc igitur
Il gesto che il sacerdote compie al momento di iniziare questa antichissima preghiera (nonostante sia l'ultima a inserirsi nel Canone Romano, secondo lo Jungmann) è quello antichissimo, presente persino nel rito sacrificale giudaico, di stendere la mano sulle oblate. L'imposizione delle mani, conservata nella maggior parte delle consecrazioni cristiane, aveva duplice valenza: è il gesto dedicativo per eccellenza, poiché consacrava definitivamente l'offerta a Dio impedendone qualsiasi uso profano (cosa che nella Divina Liturgia Eucaristica già in realtà è stato fatto nell'Offertorio nel rito romano e nella proscomidia nel rito greco, ma su cui è sempre utile ritornare, a pochi istanti dalla consacrazione e dalla Transustanziazione). E' anche però il gesto con cui il sommo sacerdote in Israele trasferiva sul capro espiatorio i peccati di tutto il popolo (cfr. Levitico IV), e identicamente è qui il gesto con cui i peccati di tutto il mondo vengono portati da Nostro Signore Gesù Cristo incarnato e crocifisso, e lavati nel suo Sangue Preziosissimo. Quest'orazione riassume tutte le preghiere del sacerdote: per sé medesimo, per i presenti, per chi è offerto il sacrificio e per chi gli è unito nella preghiera. Chiede anche la pace in questo mondo, la liberazione dalla dannazione infernale, e il poter godere della gloria celeste insieme agli eletti. Tre beni dunque, richiedendo i quali, secondo il Clicht, la Chiesa professa che Dio è il Signore dell’universo, e che il suo supremo principato si estende nella triplice struttura del mondo, sulla terra, negli inferi e nei cieli.
Il Gueranger fa notare che le parole diesque nostros in tua pace disponas non compaiono nelle versioni di quest'orazione antecedenti al VI secolo, e pertanto le riconduce a S. Gregorio Magno, allorché l'Urbe era gravemente minacciata dall'assedio longobardo. Questa nota, ispirata dallo Spirito Santo al Santo Papa (cui appariva spesso, come è noto dalle croniche del suo segretario Giovanni, sottoforma di colomba, che gli suggeriva ciò che dovesse fare o dire, fu saggiamente mantenuta nei secoli successivi.
S. Roberto Bellarmino così descrive, con asciutte e chiare parole, quest'orazione: "Il Sacerdote prega Dio, perché accetti quest’oblazione di pane e divino come materia del futuro Sacrificio, e la benedica e santifichi veramente".
Il sacerdote conclude questa preghiera dicendo Amen a mani giunte, e subito dopo inizia a compiere i riti della consacrazione. Il chierichetto suona una volta il campanello durante questa preghiera, per avvisare il popolo che è imminente la transustanziazione delle Sacre Specie, e si avvicina al sacerdote per il gran momento.
Hanc ígitur oblatiónem servitútis nostræ, sed et cunctæ famíliæ
tuæ, quǽsumus, Dómine, ut placátus
accípias: diésque nostros in tua pace dispónas, atque ab ætérna damnatióne
nos éripi, et in electórum tuórum iúbeas grege numerári. Per Christum Dóminum
nostrum. Amen.
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Quest’oblazione dunque della nostra servitù, ma anche dell’intera
pletora dei vostri servi, vi preghiamo, o Signore, affinché l’accettiate
placato: e perché disponiate i nostri giorni nella vostra pace, e ci liberiate
dall’eterna dannazione, e ordinate che siamo annoverati nel gregge dei vostri
eletti. Per Cristo Signore nostro. Amen.
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XXXV. Quam oblationem
Anche se non è ancora il momento effettivo della consacrazione, si può dire che la preghiera consecratoria sia già iniziata, dal momento che, nella collazione di preghiere diverse che è il Canone Romano, dal Quam oblationem al Supplices te rogamus compresi si ha un unico blocco logico, contenente anche il sublime mistero della Transustanziazione. Invoca dunque il Signore perché doti delle seguenti cinque caratteristiche l'oblazione, accompagnando queste richieste con tre segni di croce. Le parole usate sono tolte dal linguaggio giuridico del diritto romano, e ora le andiamo a spiegare secondo il Gueranger e secondo il Righetti:
- Benedictam: l'oblazione sia santificata, e in tal modo accetta a nostro Signore; il Righetti infatti traduce con "consacrata", piuttosto che "benedetta". Riferisce invece il Suarez che il termine "benedizione" è spiegabile con la consuetudine dei Padri di chiamare così la Consacrazione, intendendo la benedizione per eccellenza.
- Adscriptam: letteralmente "registrata", il Gueranger interpreta che bisogni ben considerarla, mentre il Righetti propende perché essa debba essere "registrata a merito degli offerenti".
- Ratam: dev'essere dunque ratificata, approvata e confermata in cielo come cosa buona e conveniente, riconosciuta valida davanti a Dio.
- Rationabilem: questa parola ha lo stesso valore di λογικήν all'interno dell'anafora di S. Giovanni Crisostomo (che definisce ripetutamente il Sacrificio ripresentato nella Messa come λογικήν καὶ αναίμακτον λατρείαν, "spirituale ed incruento sacrificio"). Il Gueranger propone giustamente di andare a considerare il sacrificio cruento dei Giudei, il quale era una prefigurazione imperfetta e del Sacrificio cruento e unico di Nostro Signore e della ripresentazione incruenta di quel medesimo sacrificio durante la Santa Messa. Ora, la Vecchia Legge e il sacrificio cruento son cessanti, soppiantati dall'oblazione spirituale che è di estremamente maggior valore. S. Paolo infatti nella lettera ai Romani invita i cristiani a offrire se stessi a Dio come ostia interiore e veramente spirituale: Obsecro vos, fratres, per misericordiam Dei, ut exhibeatis corpora vestra hostiam viventem, sanctam, Deo placentem, rationabile obsequium vestrum ("Vi prego, o fratelli, per la misericordia di Dio, acciocché offriate i corpi vostri quale ostia vivente, santa, gradita a Dio, il vostro sacrificio spirituale", Romani XII, 1). "Così, dunque - conclude dom Prosper - il cristiano deve offrire a Dio persino il suo corpo, facendolo partecipar alla preghiera, praticando il digiuno e la penitenza, per impedire che segua continuamente le tendenze della materia; in una parola, deve far in modo che la parte inferiore del suo essere s'innalzi sino ad unirsi senza ostacolo alla parte superiore."
Anche il Righetti fa riferimento alle antiche oblazioni cruente, ma preferisce passare per la filosofia neoplatonica ed aristotelica, e concisamente argomenta: "rationabilem, cioè spirituale, secondo l'elevato concetto del sacrificio che i filosofi greci dichiaravano essere l'unica forma di culto degna di Dio, in opposizione ai sacrifici carnali, cruenti, ormai aboliti".
E' opinione minoritaria e poco probabile che rationabilem abbia tutt'altro significato, nel senso di "canonica", secondo le debite forme. - Acceptabilem: l'oblazione dev'essere soddisfacente a Dio cui è offerta.
Altre note autorevoli riguardano l'interpretazione dell'in omnibus (Righetti, "sotto ogni rapporto") e di oblationem (Müller, "non solo il Corpo fisico, ma anche il Corpo mistico di Nostro Signore (la sua Chiesa, ndr)").
Il Sacerdote termina l'orazione tracciando un segno sull'ostia e sul calice, invocando Iddio perché essi realmente si trasformino nel Corpo e nel Sangue del Signore, perché sian messi a nostra salutare disposizione e divengano nostro celeste nutrimento.
Quam oblatiónem tu, Deus, in ómnibus, quǽsumus, bene + díctam, adscríp + tam, ra + tam, rationábilem,
acceptabilémque fácere dignéris ut nobis Cor + pus et San + guis fiat dilectíssimi Filii tui
Dómini nostri Iesu Christi.
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La quale oblazione voi, o Dio, ve ne preghiamo, degnatevi di farla in
tutto benedetta, registrata, approvata,
spirituale, ed accettabile, acciocché per noi diventi il Corpo e il Sangue
del vostro dilettissimo Figlio, il Signor nostro Gesù Cristo.
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XXXVI. La Consacrazione
Ecco la parte essenziale della Messa, le Sante Parole già pronunziate da Nostro Signore durante l'Ultima Cena, che ora il Sacerdote, che agisce in persona Christi (quasi fosse Cristo egli stesso, legge il Sylvius), rinnova applicandole alla materia presente davanti a sé, che debbono giocoforza dirsi "recitativamente e formalmente o assertivamente", perché si possa realmente parlare di una Divina Liturgia Eucaristica.
Veramente qui si offre la Vittima reale e sostanziale; la Consacrazione, secondo l'opinione più comune tra i teologi, è un atto veramente sacrificativo, perché mediante essa, dalla forza delle parole, si separano (almeno per quanto riguarda gli accidenti) il Corpo e il Sangue, ancorché esistano ambedue in concomitanza, insieme all'Anima e alla Divinità, sotto ciascheduna specie. S. Gregorio Teologo dice che "il Sacerdote usa le parole come una spada mistica" e pone Cristo sull’altare come Vittima uccisa e sacrificata.
Con queste parole consacra il Corpo di Cristo:
- Qui pridie quam pateretur. Queste parole furono aggiunte dal papa Alessandro I, sesto successore di san Pietro. Egli volle aggiungere queste parole per ricordare la Passione; per esser il Sacrificio della Messa il medesimo Sacrificio della croce; perché lo stesso Signore, che era stato immolato la sera nel Cenacolo, doveva esser immolato il giorno dopo sul Calvario. (Gueranger)
- Accepit panem in sanctas ac venerabiles manus suas. Il sacerdote prende nelle sue pure mani (“O quanto debbono essere monde quelle mani!” dice Tommaso da Kempis, tanto che una rubrica prescrive, se necessario, di astergere le mani sul corporale) il pane ed alza gli occhi al cielo - et elevatis oculis in caelum -, facendo ciò che fece lo stesso Gesù Cristo.
- Ad te Deum Patrem suum omnipotentem, tibi gratias agens (china il capo), benedixit (dicendo questa parola il sacerdote fa il segno di croce sull'ostia). Questa è l'Eucaristia o "rendimento di grazie", e la Chiesa ha cura speciale di ricordarlo, e questo perché noi siamo sempre restii nel testimoniar a Dio la nostra gratitudine per i suoi innumerevoli benefici, mentre dovremmo aver sempre il ringraziamento nel cuore e sulle labbra. "Con questa benedizione Cristo chiedeva la santificazione del pane e la trasformazione, prossima entro breve; donde, sebbene gli Evangelisti la nominino ora benedizione ora rendimento di grazie perché Cristo le ha congiunte (gratias agens benedixit), in realtà sono diverse, tra loro e dalla Consacrazione. La benedizione infatti è rivolta al simbolo, l’azione di grazie a Dio". (Sylvius)
- Fregit deditque discipulis suis, dicens: Accipite, et manducate ex hoc omnes:
- HOC EST ENIM CORPUS MEUM (questi sono i verba consecratoria vera e propria, indispensabili all'azione)
II sacerdote, con i gomiti sull'altare che rappresentano la sua unione a Cristo, tiene allora l'ostia col pollice e l'indice di ambedue le mani, pronunzia a voce bassa, ma chiaramente e distintamente, le parole della consacrazione tenendo gli occhi sull'ostia che vuole consacrare. Pronunziate le parole della Consacrazione, il sacerdote, genuflettendo, adora l'Ostia santa. Subito (statim dice la rubrica) il Sacerdote genuflesso adora il Dio nascosto, ed eleva l’Ostia perché sia adorata dal popolo. “Deve adorare questo Signore con tanta profonda venerazione da umiliare il suo cuore sino allo stesso abisso, quasi desiderando discendere nelle profondità della terra per la riverenza di tanta maestà. E memore che gli Angeli discendono dal cielo per stare qui innanzi al Signore nel Sacrificio, come dicono S. Gregorio e S. Giovanni Crisostomo, deve pensare in quel momento di essere circondato dall’esercito degli Angeli, ed insieme con essi adorare e lodare il Signore e Creatore comune a tutti” (L. Da Ponte). Fatta la sua adorazione, il sacerdote si alza ed eleva l'Ostia al di sopra del suo capo per farla veder al popolo, affinchè esso pure l'adori. Questa elevazione, assente nella consuetudine antica, fu introdotta a partire dal XII secolo, per contrastare efficacemente l'eresia propugnata da Berengario arcidiacono d'Angers, che negava la Presenza Reale. Le Chiese d'Oriente mantengono l'antico uso di elevare l'Ostia solo alla fine del Canone, facendo quest'elevazione con grande solennità: il sacerdote prende il Corpo e il Sangue del Signore e, voltandosi verso il popolo come all'Orate fratres, li presenta all'adorazione dell'assemblea. Nella Chiesa latina, invece, quell'elevazione ha perso importanza e si è ridotta a un piccolo gesto simbolico, mentre l'elevazione principale è quella che avviene subito dopo la Consacrazione, accompagnata dal suono triplice del campanello, da sei (o nove, in alcuni luoghi, per moltiplicazione) colpi di turibolo e dal suggestivo gesto (che in origine, con le ingombranti casule medievali, aveva funzione pratica) di sollevare leggermente la pianeta del celebrante.
"Dopo aver elevato l'Ostia, il sacerdote la mette sul corporale e l'adora di nuovo. [...] Dopo queste prime parole della Consacrazione, il Corpo di Nostro Signore è sull'altare, ma poiché, dopo la Risurrezione, il Corpo, il Sangue, l'Anima e la Divinità del Salvatore non possono essere separati, Nostro Signore è vivo sull'altare come in cielo, ossia glorioso, come dopo la sua Ascensione". (Gueranger).
D'ora innanzi ogni volta che toccherà l'Ostia, il sacerdote farà una genuflessione prima e dopo; prima, perché sta per toccare con le sue mani il Signore, e dopo, per rendergli omaggio. Inoltre, non disgiungerà più i pollici e gli indici fin dopo l'abluzione delle dita, perché queste dita sono consacrate, hanno toccato il Signore, e non possono esser macchiate da nulla di profano.
Qui pridie quam paterétur accépit panem in sanctas ac venerábiles
manus suas et elevátis óculis in coélum, ad te Deum Patrem suum omnipoténtem,
tibi grátias ágens, bene + díxit, fregit, dedítque discípulis suis,
dicens: Accípite, et manducáte ex hoc ómnes.
HOC EST ENIM
CORPUS MEUM.
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Il quale, prima di patire i tormenti, prese il pane nelle sante e
venerabili mani sue, ed elevati al cielo gli occhi, a voi, Dio Padre suo
onnipotente, rendendovi grazie, lo benedisse, lo spezzò, lo diede ai
discepoli suoi, dicendo: Pigliate, e mangiatene tutti.
QUESTO E’ INFATTI IL MIO CORPO.
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Prosegue poi consecrando il vino; discoperto il calice, pronunzia queste parole
- Simili modo postquam coenatum est. Poi, prendendo il calice tra le mani, prosegue: accipiens et hunc praeclarum Calicem in sanctas ac venerabiles manus suas. "Quanto la santa Chiesa nobilita questo calice che ha contenuto il Sangue del Signore e che ora pone nelle mani del sacerdote! Nel salmo ascoltiamo il Profeta che dice: Et calix meus inebrians quam praeclarus est! (Ps XII,5). La santa Chiesa trovò questa lode così appropriata per il calice consacrato, destinato a contener il Sangue di Gesù Cristo, che ad essa rivolge il suo ricordo in questo momento." (Gueranger)
- Item tibi gratias agens, benedixit. Prosegue dunque il rendimento di grazie e la benedizione di cui si è parlato sopra.
- Deditque discipulis suis, dicens: Accipite, et bibite ex eo omnes.
- Allora il sacerdote, tenendo il calice un poco alzato, pronunzia sopra di esso le parole della consacrazione del vino: HIC EST ENIM CALIX SANGUINIS MEI, NOVI ET AETERNI TESTAMENTI: MYSTERIUM FIDEI: QUI PRO VOBIS ET PRO MULTIS EFFUNDETUR IN REMISSIONEM PECCATORUM.Le parole della consacrazione, tutte fondamentali, differiscono leggermente da quelle che si leggono nei Vangeli o in San Paolo, ma secondo la tradizione furono fissate da San Pietro proprio per l'uso liturgico, e sulla loro verità e necessarietà si esprimono favorevolmente Cornelio a Lapide e il Suarez.
Sì, questo è veramente il mysterium fidei, uno degli elementi essenziali della nostra fede, il più incomprensibile e il più grato, forse! Appare qui il sangue di Cristo, il sangue del Nuovo ed Eterno Testamento, non più il sangue dei tori e dei capri che sigillava l'Antica Alleanza, cessata in Cristo, ma il sacrificio di Cristo e la sua ripresentazione eterna ed incruenta, canonizzata nella Nuova Legge, istituita da Nostro Signore fatto uomo e morto per noi, la quale vigerà sino alla fine dei tempi. Sì, questo è il Sangue effuso per la remissione dei peccati, effuso pro multis, perché Cristo è morto per tutti, ma non tutti accettano il Sacrificio Redentore di Nostro Signore, e come tale non tutti godranno della remissione dei peccati in questo sacrificio. "Mai, in nessun sacrificio - argomenta il Gueranger -, vi fu vittima più realmente immolata e sacrificata di quanto lo sia, dopo la Consacrazione, Colui che è lo splendore di Dio e del quale tuttavia la gloria, la bellezza e la vita, non hanno ormai più altro fine e altra destinazione che di entrar in noi e in noi perdersi e consumarsi.". Sì, questo è realmente l'unico sacrificio, quello di Gesù, l'"unico e accettabile olocausto" gradito al Padre (cfr. Paolo III), che il Sacerdote ripresenta in persona Christi offrendo il Corpo e il Sangue di Cristo. Stessa vittima, Cristo, stesso sacerdote, Cristo, stesso sacrificio, l'eterno sacrificio di Cristo. - Alle parole della Consacrazione il sacerdote, posando il calice sul corporale, aggiunge subito: Haec quotiescumque feceritis, in mei memoriam facietis. Con queste parole, Nostro Signore ha dato ai suoi Apostoli, e in essi a tutti i sacerdoti, il potere di far ciò che Egli stesso aveva fatto, ossia il potere d'immolarlo. Dunque, non è più l'uomo che parla nel momento solenne della Consacrazione, ma lo stesso Gesù Cristo, servendosi dell'uomo (Gueranger). Ancora poi il sacerdote genuflette adorante, si rialza per elevare l'ostia al suono del campanello e allo spargersi dell'incenso, e genuflette nuovamente.
A questo punto le Chiese Orientali aggiungono l'epiclesi, l'invocazione allo Spirito Santo, con la quale dicono che è veramente completa la Transustanziazione. A nostro parere, l'aggiunta di una così forte preghiera allo Spirito in questo punto, già presente anticamente ma non interpretata come fondamentale alla Consacrazione, fu il risultato delle dispute trinitarie dei secoli VIII-IX; secondo il Gueranger, invece, siccome nel rito bizantino il coro risponde Amen alle parole consacratorie, l'aggiunta di una preghiera tutta sacerdotale (senza risposta) serviva a chiarire il momento dell'avvenuta consacrazione. In ogni caso, come si è già detto in precedenza, l'epiclesi romana, che si trova all'Offertorio, il Veni Sanctificator (non il Quam oblationem come alcuni, meno bene, sostengono), anche se meno forte e in un luogo diverso (ma più opportuno), ha medesimo valore.
Símili modo póstquam cenátum est accípiens et hunc præclárum cálicem
in sanctas ac venerábiles manus suas: item, tibi grátias ágens bene + díxit,
dedítque discípulis suis, dicens: Accípite et bibíte ex eo ómnes.
HIC EST ENIM CALIX SÁNGUINIS MEI,
NOVI ET ÆTÉRNI
TESTAMÉNTI:
MYSTÉRIUM FÍDEI:
QUI PRO VOBIS ET PRO MULTIS EFFUNDÉTUR IN REMISSIÓNEM PECCATÓRUM.
Hæc
quotiescúmque fecéritis, in mei memóriam faciétis.
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Similmente, dopo che si fu cenato, prese anche questo gloriosissimo
calice nelle sante e venerabili mani sue: parimenti, rendendovi grazie, lo
benedisse e lo diede ai discepoli suoi, dicendo: Pigliate, e bevetene tutti.
QUESTI E’ INFATTI IL CALICE DEL MIO SANGUE,
DEL NUOVO ED ETERNOTESTAMENTO: MISTERO DELLA FEDE:
CHE PER VOI E PER MOLTI S’EFFONDE PER LA REMISSIONE DE’ PECCATI.
Ogniqualvolta
farete queste cose, le farete in memoria di me.
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Prossima pubblicazione (inizio settembre): La Santa Messa XI - Dall'Unde et memores alla fine del Canone