mercoledì 17 maggio 2017

La Santa Messa IV - Dalla Confessione al Kyrie

Pubblicazione precedente: http://traditiomarciana.blogspot.com/2017/05/la-santa-messa-iii-la-preghiere.html

Proseguiamo in questa parte del nostro saggio l'analisi delle preghiere introduttive alla S. Messa, iniziate nella parte precedente; dunque si vedranno la Confessione, la venerazione dell'altare, la prima incensazione, l'antifona all'introito e il Kyrie.



XI. Della Confessione e delle preghiere seguenti

Profondamente umiliato, il sacerdote ha necessità di purificarsi prima di accedere al Sancta Sanctorum, di emendare le colpe della sua natura umana peccatrice, suscitando in sé sentimenti di contrizione e dolore per le proprie iniquità. Inoltre, come il salmo XLII era stato, per alcuni commentatori, la preghiera di Gesù all'orto degli ulivi, così il Confiteor rappresenta Cristo che cade nel Getsemani.
La formula con cui il celebrante si confessa a Nostro Signore Domineddio è stata immutabilmente fissata dalla Chiesa attorno all'VIII secolo: una Regola Canonica del 743 raccomanda di supplicare i Santi per confessarsi e chiedere di pregare Iddio per sé, mentre la formula attuale si trova documentata già in Egberto di York (+766), e successivamente riportata nell'Ordo Romanus XIV e confermata dal III Concilio di Ravenna, nella forma esatta in cui ancora oggi è detta in tutte le Messe. La sua recita all'altare risale al X secolo, ossia più o meno nello stesso periodo in cui fu introdotto il salmo Introibo, ma abbiamo fonti numerose che ci fan pensare che il Confiteor avesse avuto diffusione pressoché universale.
In tale formula, necessitando più che mai del perdono l'officiante di sì grandi misteri, egli, profondamente inclinato, confessa i suoi peccati non solo a Dio Onnipotente, ma finanche ai suoi Santi, anzi ai quali ha peccato: e così aggiunge il nome della Santissima Deipara, la sempre vergine Maria, il principe delle milizie celesti Michele, il precursore di Nostro Signore Giovanni il Battista, i principi degli Apostoli i Santi Pietro e Paolo, e tutti i Santi che in ogni tempo furono graditi a Dio, che ebbero già gloria per la loro retta condotta, cui anch'egli aspira con umiltà. Alcuni ordini religiosi richiesero ed ottennero di poter aggiungere al novero di questi santi il loro fondatore (S. Benedetto pei benedettini, S. Francesco pei minori, S. Domenico pei predicatori...). In alcuni luoghi, poi, si aggiunge il nome del Santo patrono.
La confessione si fa anche ai ministri e al popolo che assiste la S. Messa (et vobis fratres), in modo da umiliarsi ancora maggiormente, e di rendere note le proprie colpe anche ai fedeli per conto dei quali sta per celebrare l'Eccelso Sacrificio (se però fosse presente l'Ordinario della Diocesi o il Papa ad assistere pontificalmente, genufletterebbe verso di quest'ultimo e direbbe tibi pater, per questioni di precedenza gerarchica). Il sacerdote, infatti, ha molto peccato, come ogni uomo, in tre vie: nei pensieri, nelle parole e nelle opere, e per questo egli se ne pente amaramente, e siccome il pubblicano del Vangelo che si batte il petto dicendo Domine Jesu Christe fili Dei, miserere mei peccatoris!, egli tre volte accusa la propria colpa percuotendosi il petto, secondo un costume molto diffuso nel mondo semitico per indicare il pentimento, e di lì passato alla nostra tradizione
Supplica poi gli stessi santi a cui si era confessato, affinché preghino per la sua sorte il Dio del cielo, il quale possa misericordiosamente condonargli le molteplici macchie della sua anima, e renderlo degno di compiere il suo divino servizio. Quest'atto di dolore, in cui si riassume la confessione delle proprie colpe, il loro pentimento, e la richiesta di intercessione per queste, è una delle formule più complete per esprimere la propria contrizione, e come tale è valevole anche, secondo molti teologi, come atto di contrizione perfetto per sfuggire alla dannazione in punto di morte.
Al termine della Confessione, i ministri gli si volgono e pronunciano una breve intercessione, augurandosi che il Signore filantropo abbia misericordia di lui, e una volta purificata la sua anima lo conduca nel Regno Celeste.
Ma forse che i ministri che servono all'altare sono più probi del sacerdote che celebra? Nient'affatto, e per questo anche loro debbono fare, pressoché prostrati a terra, la loro confessione, esattamente con le medesime parole dal profondissimo significato penitenziale, ma, anziché rivolgersi ai fratelli, essi, volgendoglisi, si rivolgono al celebrante per confessarsi e chiedergli di pregare Iddio, invocandolo come pater (chiunque egli sia, prete, Vescovo o Papa, per via del clima d'umiltà di questa parte della liturgia) e senz'aggiungere altre titolazioni onorifiche. Anche su di loro il sacerdote poi dice la formula d'intercessione, e quinci, segnandosi, pronuncia una preghiera d'assoluzione, di composizione altomedievale, alla quale è dato il gran potere di cancellare i peccati veniali in vista del mistero che si va a celebrare. In tale orazione la distinzione d'ordine che aveva imposto la doppia recita del Confiteor, giacché il pentimento di un ministro di Dio non è uguale a quello dei laici (che i ministri d'altare rappresentano), viene sostituita dalla comunanza della sorte umana per cui non v'è più giudeo né greco, e dunque il sacerdote, pur mantenendo tutta la dignità sacramentale del suo ordine che lo rende eletto tra il popolo, dirà tutto alla prima persona plurale, anziché alla seconda, come farebbe nelle normali assoluzioni, perché di quel medesimo popolo di peccatori egli è parte.

Dopo la confessione, colui che celebra, a capo chinato, ma meno profondamente, recita ancora alcuni versetti biblici penitenziali, con il quale egli ricorda che celebrando l'Eterno Sacrificio si pone in continuità col popolo d'Israele e con tutte le generazioni passate e presenti. I primi due versetti sono tolti dal salmo LXXXIV, in cui il re David invoca la pristina venuta del Messia liberatore che dimostri la salvezza del Signore a tutta la terra: allo stesso modo, durante la liturgia si rinnova l'attesa della seconda venuta di Cristo, avendo però già conosciuto la salvezza ch'egli ci ha preparato mediante la sua Croce, e alla quale aneliamo nell'umile ammissione delle nostre colpe.
L'ultimo versetto dal salmo CI si ritrova in quasi tutte le preghiere litaniche della liturgia romana, poiché può considerarsi un sunto di tutte le invocazioni, accompagnato dalla speranza che il Signore ascolti ed esaudisca le nostre suppliche.
Dopodiché, al modo di Mosè che sale alla nube del Signore, il sacerdote, che s'appresta a salire i gradini dell'altare e ad accedere al Sancta Sanctorum, saluta il popolo con la formula Dominus vobiscum, alla quale egli rispondono et cum spiritu tuo: questa formula presente in ogni istante della liturgia occidentale nacque probabilmente come un vero e proprio saluto che i presuli rivolgevano incontrando i fedeli, anche fuori di chiesa, giacché presenta le caratteristiche tipiche delle salutazioni antiche, ossia l'augurio che la Divinità accompagni il proprio fratello.
Quindi, il celebrante distende le braccia, aprendo le mani al Dio celeste, come Cristo stesso aveva fatto sulla croce, e si dispone a pregare, invitando al contempo anche tutti i presenti a pregare per lui, che è chiamato a presentarsi al mistico Calvario.

Deinde iunctis manibus profunde inclinatus facit Confessionem.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Ioánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et opere: percutit sibi pectus ter, dicens: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Ioánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, orare pro me ad Dóminum, Deum nostrum.

M. Misereátur tui omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis tuis, perdúcat te ad vitam ætérnam.
S. Amen.

Deinde Ministri repetunt Confessionem: et ubi a Sacerdote dicebatur vobis, fratres, et vos, fratres, a Ministris dicitur tibi, pater, et te, pater.

S. Misereátur vestri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis vestris, perdúcat vos ad vitam ætérnam. 
R. Amen.
S. Indulgéntiam, + absolutionem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Orémus
Indi, a mani giunte e profondamente inchinato, fa la sua Confessione.
Confesso a Iddio onnipotente, alla beata sempre Vergine Maria, a san Michele Arcangelo, a san Giovanni il Battista, ai santi Apostoli Pietro e Paolo, a tutti i Santi e a voi, o fratelli, ch’io molto ho peccato col pensiero, la parola e l’azione: tre volte si batte il petto dicendo: per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa. Pertanto prego la beata sempre Vergine Maria, san Michele Arcangelo, san Giovanni il Battista, i santi Apostoli Pietro e Paolo, tutti i Santi e voi, o fratelli, di pregare per me presso il Signore, Dio nostro.
M. Di te abbia pietà Iddio onnipotente, e, perdonati i tuoi peccati, ti conduca alla vita eterna.
S. Amen.

Quinci i ministri ripetono la Confessione, ma ove dal Sacerdote fu detto a voi, o fratelli, e voi, o fratelli, dai Ministri vien detto a te, o padre, e te, o padre.

S. Di voi abbia pietà Iddio onnipotente, e, perdonati i vostri peccati, vi conduca alla vita eterna.
R. Amen.
S. L’indulgenza, + l’assoluzione e la remissione de’ nostri peccati ci conceda il Signore onnipotente e misericordioso.
R. Amen.

V. O Dio, voltoti a noi ci farai vivere.
R. E il tuo popolo in te s’allieterà.
V. Mostraci, o Signore, la tua misericordia.
R. E dacci la tua salvezza.
V. Signore, ascolta la mia preghiera.
R. E il mio grido giunga a te.
V. Il Signore sia con voi.
R. E collo spirito tuo.
V. Preghiamo                                 

XII. Della venerazione dell'altare e della prima incensazione



Salendo i gradini dell'altare, il sacerdote dice una preghiera segreta in cui chiede al Signore di levar da lui ogni traccia d'iniquità: pronunzia quest'orazione al plurale, giacché egli non è solo, ma è accompagnato dal diacono e dal suddiacono, che salgono con lui; anche qualora non fossero presenti, essendo la Messa solenne il modello su cui è scritto il Messale. Quindi, pregando i martiri le cui reliquie sono presenti nell'altare, egli venera con un bacio la Sacra Mensa, e con essa Cristo stesso che è in essa raffigurato. Il bacio dell'altare è anche il segno del nuovo bacio che i fedeli danno al Signore prima del Sacrificio, il quale differisce da quello del discepolo traditore, secondo le parole di un antico tropario greco: Della tua mistica cena non svelerò il segreto, né ti darò il bacio di Giuda il traditore.
In seguito, nelle Messe Solenni e in quelle cantate con indulto, il celebrante incensa l'altare: il profumo dell'incenso, prescritto già dal Levitico, bruciato ad un apposito altare nel Tempio di Salomone e offerto dai Magi al Gesù bambino, rappresenta le orazioni della Chiesa militante che salgono a Dio, ma è anche il rendere onore a Nostro Signore rappresentato dall'altare, nonché un modo di scacciare gli spiriti maligni presenti nell'aria e cospargere un degno profumo che aiuti il culto del Signore. Inoltre, il bruciare aromi fu visto da alcuni come allegoria dello zelo umano che dev'essere tutto dedicato a Dio, mentre S. Agostino lo definisce "il buon odore della grazia che da Dio discende in noi". Ai tempi degli Apostoli le incensazioni erano molto numerose, e tali sono rimaste nei riti orientali, in cui viene più volte durante le liturgie incensato anche l'intero tempio: nel rito romano sono rimaste in misura limitata, ma hanno mantenuto il loro profondo significato simbolico.
Il turiferario e il diacono si presentano al sacerdote, perché egli, imponendo l'incenso nel turibolo e benedicendolo, ne conferisca la virtù soprannaturale che si addice agli oggetti del culto liturgico. Egli si prepara a offrire questo profumo di soavità come l'Arcangelo San Michele, di cui l'Apostolo Giovanni dice nell'Apocalisse che venit, et stetit ante altare habens thuribulum aureum, e con esso riempie di profumi le preghiere dei santi.
Il celebrante, assistito da diacono e suddiacono, incensa dapprima tre volte la Croce, poiché a Nostro Signore si addice ogni onore, gloria e benedizione; quindi, incesa due volte ciascuna reliquia o icona dei Santi presente sulla Sacra Mensa, giacché Cristo è misticamente unito al suo corpo, la Chiesa, rappresentata dai Santi; indi, incensa l'altare percorrendolo tutto da ogni lato: fa tutto ciò in silenzio e in modo sommesso. Poi, riconsegnato il turibolo al diacono, quest'ultimo incensa il sacerdote, onore spettante ai ministri di Dio per via della loro regale e sacerdotale elezione. Il Vescovo, proprio per rendere più manifesto il suo sacerdozio regale, quando si fa incensare indossa la Mitria.



Et ascendens ad Altare, dicit secreto: 
Aufer a nobis, quaesumus, Dómine, iniquitátes nostras: ut ad Sancta sanctórum puris mereámur méntibus introíre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen.
Deinde, manibus iunctis super Altare, inclinatus dicit: 
Orámus te, Dómine, per mérita Sanctórum tuórum, osculatur Altare in medio quorum relíquiæ hic sunt, et ómnium Sanctórum: ut indulgére dignéris ómnia peccáta mea. Amen.

Diaconus, parum inclinatus versum sacerdotem, dicit:
Benedícite, pater reverénde 
Sacerdos benedicit incensum, dicens:
Ab illo bene + dicáris, in cuius honore cremáberis. Amen. 
E salendo all’Altare dice in segreto: 
Togli da noi, te ne preghiamo, o Signore, le nostre iniquità, acciocché meritiamo di entrare nel Santo dei Santi con le menti purificate. Per Cristo Signore nostro. Amen.
Poi, giunte le mani sopra l’Altare, inchinatosi, dice: 
Ti preghiamo, o Signore, per i meriti dei tuoi Santi, bacia l’Altare nel mezzo dei quali qui si trovano le reliquie, e di tutti i Santi, affinché tu ti degni d’esser propizio a tutti i miei peccati.

Il diacono, leggermente inchinato al sacerdote, dice:
Benedite, padre reverendo. 
Il sacerdote benedice l’incenso dicendo:
Tu sia benedetto + da colui nel cui onore sarai bruciato. Amen.                              


XIII. Dell'Antifona all'Introito


L'introito della Dominica Laetare
Terminata la venerazione dell'altare, il sacerdote si reca al lato dell'Epistola, rappresentando in sé Cristo che, catturato e legato, è portato dinnanzi ad Anna. Da lì, legge l'Antifona all'Introito, che fa parte del proprio del giorno ed è generalmente tolta dai salmi (negli uffici dei Santi è spesso presa anche dai libri sapienziali, e in alcune feste maggiori è di composizione ecclesiastica, mentre in due occasioni è tratta da un apocrifo, l'Apocalisse di Esdra), con la quale inizia propriamente la Messa dopo la sua preparazione, tant'è che l'ufficio del giorno è spesso appellato con la prima parola di tale antifona (exempli gratia, Dominica Laetare, Dominica Gaudete, Dominica Dum medium, etc.). Questo testo si costituisce di un versetto ripetuto due volte (la vera e propria "antifona"), intervallate da un altro versetto (detto "salmo") e dal Gloria Patri (quest'ultimo si omette nelle Messe di Passione ed è sostituito dal Requiem aeternam nelle Messe da morto), ed è cantato dalla Schola mentre il clero recita le preghiere introduttive. La versione del testo sacro da cui si trae quest'antifona, così come tutte le altre durante la Messa, è la Vetus Itala, traduzione latina della Septuaginta greca, a differenza delle letture che sono tratte dalla più tardivamente introdotta Vulgata di S. Girolamo, segno dell'antichità di queste preghiere antifonali.
Già S. Basilio ci parla di un breve testo sacro letto prima della parte didattica della liturgia. Anticamente, esso era cantato durante la processione introitale del sacerdote dal Secretarium (la sagrestia) al Santuario, ed era molto più lungo, venendo cantato il salmo per intero (proprio per questo motivo si definisce "salmo" il versetto sopravvissutone insieme alla dossologia). Νella liturgia greca, infatti, sopravvivono ad oggi ben tre salmi (non completi, ma formati da più versetti) d'antifona, oltre alle antifone proprie del Santo e della Festa, e il loro carattere processionale è mantenuto grazie al Piccolo Ingresso del clero col Vangelo.
A Roma, ove l'introduzione di questo testo si fa risalire a Celestino I o a S. Gregorio Magno (il quale ne compose personalmente un gran numero), per dare al coro il segnale di iniziare il canto, il Suddiacono del Papa agitava il manipolo pontificale, allo stesso modo in cui i dignitari romani agitavano la mappula per dare inizio ai Giochi circensi: ancora oggi, infatti, durante la Messa Pontificale il manipolo del Vescovo è portato in processione dal Suddiacono dentro all'Evangeliario, e il Prelato lo indossa solo dopo il Confiteor.
Le antifone degl'Introiti si sono stratificate lungo più secoli, sia a livello di testi che di partitura, tant'è vero che non sono anomale antifone del tutto scollegate dal salmo, composte in onore della festa del giorno (si veda il Viri Galilae dell'Ascensione), o finanche di avvenimenti storici (lo Schuster riporta che l'antifona dei SS. Filippo e Giacomo fu composta in onore della liberazione di Roma dai Goti da parte del generale bizantino Narsete), ma che sono veri capolavori, anche musicalmente.
L'uso che il sacerdote recitasse sottovoce l'Introito durante le Messe in canto, benché il coro l'abbia appena eseguito, risale al IX-X secolo, quando furono introdotte le Messe basse che prevedevano la lettura da parte del celebrante di tutti i testi, per semplice analogia; infatti, nei Sacramentari più antichi non si trovano le Antifone, che oggi sono riportate nel Messale in forma letta, mentre la notazione si trova da sempre nell'Antifonario (Liber Antiphonarum).
Alle prime parole dell'Introito, il sacerdote e tutti i presenti nel presbiterio si fanno il segno della croce (ma non alla Messa da morto, in cui si traccia il segno di croce solo sul libro), perché con quest'azione si considera iniziata propriamente la Liturgia dei Catecumeni, alla quale potevano un tempo assistere anche coloro che non avevano ancora ricevuto il Battesimo, dacché non si celebrano in questo momento i Misteri della Fede, riservati agl'iniziati, ma s'istruiscono i presenti sui testi sacri.

XIV. Del Kyrie

Con il termine Kyrie s'identificano i resti dell'antica preghiera litanica d'intercessione, serie di suppliche al Signore scomparsa dal rito romano ma rimasta in gran parte dei riti orientali, di cui sopravvive l'invocazione del popolo che intervallava le richieste formulate dal diacono, ossia per l'appunto Κύριε ἐλέησον (Domine miserere, Signore, abbi pietà): tale formula, intervallata nel rito romano dall'omologa Χριστὲ ἐλέησον (che non trova spazio in nessun altra liturgia, nemmeno occidentale), è stata sapientemente mantenuta in lingua greca dalla Chiesa Romana (che nel resto della liturgia fu abbandonata in favore del latino nel IV secolo), a memoria perpetua dell'Unam Sanctam Ecclesiam, la quale è frutto dell'unione indissolubile tra chiese orientali e occidentali (proprio a simboleggiare ciò, il manipolo del Papa, il quale è segno dell'unione di queste chiese, presenta degl'intarsi aurei che si uniscono tra loro).
Nel Sacramentario Gregoriano è riportato che la litania venisse recitata in forma longior durante la Messa Stazionale, giacché doveva accompagnare la processione del Papa alla Basilica predestinata, mentre in forma brevior nelle Messe private; non è chiaro cosa s'intenda con questa distinzione, né tanto meno se ai suoi tempi le preghiere d'intercessione fossero già scomparse in favore del solo Kyrie eleison, o sopravvivessero ancora. Sappiamo da fonti medievali che il Kyrie era recitato ad oltranza (in alcune pievi era diffusa la pratica di recitarlo cento volte alle Messe in onore della Madonna), sinché il Vescovo non desse segnale dal trono che potesse cessare. Solo attorno all'XI secolo fu stabilita definitivamente la forma altamente simbolica di tre invocazioni ripetute tre volte: le prime tre a Dio Padre, le seconde tre al Figlio Gesù Cristo, e le ultime tre allo Spirito Santo, contro la triplice miseria dell’ignoranza, della colpa e della pena, o per significare che le Persone tutte sono reciproche per circumsessione; in tutto, fanno nove invocazioni, tante quanti sono i cori angelici, e questo si collega simbolicamente all'Inno Angelico che verrà cantato immediatamente dopo.
Oggi, nelle Messe lette viene recitato dal sacerdote col ministro al centro dell'altare, mentre in quelle cantate è detto sottovoce al lato dell'Epistola, mentre il coro lo ha cantato subito dopo l'Introito.
Un tempo, per facilitare la memorizzazione delle melodie, si erano aggiunte alcune parole a queste diverse invocazioni, come ancora si vede in alcuni Messali antichi. Sono questi i cosiddetti tropi, i quali testi furono spesso tanto amati dal popolo da essere inseriti come veri e propri testi liturgici, benché la loro funzione originaria fosse esclusivamente pratica. Il Messale di san Pio V ha fatto cadere quasi ovunque l'uso di questi Kyrie, detti infarciti, anche se i nomi con cui ancor oggi si identificano le venticinque diverse melodie di questa preghiera derivano dalle prime parole dell'antico tropo associatovi (cfr. Orbis factor, Cunctipotens genitor Deus, etc.). Nella Messa papale si cantavano innumerevoli Kyrie, giacché alle tre solenni liturgie celebrate dal Santo Padre pontificalmente, tutti i cardinali gli prestavano pubblicamente obbedienza, e la litania si prolungava sino al termine dell'atto; ma ciò costituiva una vera eccezione.

Partitura ricostruita a computer di un Kyrie tropato
La liturgia romana inizialmente fu l'unica ad avere tale preghiera in questa forma dalla tipica sobrietà urbana: nel rito ambrosiano essa fu inserita in questo momento della liturgia per puro latinismo, mentre esiste autonomamente in molte altre parti, presentando in tal modo molte analogie cogli originali orientali. Nella liturgia gallicana, invece, così come in quella mozarabica, in questo punto della Messa si ha il canto dell'Inno Trisagio (Ἅγιος ὁ Θεός, Sanctus Deus), secondo l'uso greco.
Questa breve ma densa invocazione è stata spesso trattata dai testi di mistica cristiana, soprattutto in Oriente, ove compare innumerevoli volte nella preghiera sia pubblica che privata (oltre alla litania liturgica, si dice 12 volte dopo il Padre Nostro delle preghiere private e 40 volte al termine di ogni Ora Canonica): essa infatti è stata associata a una richiesta non solo di misericordia, ma finanche di benevolenza e amore da parte del Signore; secondo alcuni teologi essa è un'invocazione che giunge direttamente al cuore di Nostro Signore e, se recitata di sovente, può portare a una mistica unione con l'amore sconfinato di Gesù.

Prossima pubblicazione (metà maggio): La Santa Messa - V - Dal Gloria in excelsis

Fonti principali: vedi precedente

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